Talento e Capability nell’Era Digitale

Il valore singolare delle persone

Come ben sanno i manager, oltre alla consolidata promozione dei Talenti designati, nelle organizzazioni è necessario snidare il talento diffuso, che è certamente presente anche se a volte è invisibile od oscurato dalla sistematica organizzativa: ruoli, mansioni, competenze…

Ebbene, nell’era digitale questa necessità è diventata cruciale. La rivoluzione digitale si sostiene infatti sulla valorizzazione del contributo aggiuntivo di ogni lavoratore, anche in forme non prevedibili, poggianti sull’impegno autonomo e singolare di ciascuno.

Cominciamo col dire che, anziché essere semplicemente “automatico” e im-mediato (ossia, letteralmente, senza mediazioni), il mondo digitale ci immette in uno scenario ridondante di possibilità, in cui la progettualità, la produzione creativa e l’intelligenza simbolica aumentano a dismisura. Il ‘governo della distanza’ (questa è la prima definizione del digitale) allarga enormemente lo spazio relazionale tra persone, cose, esperienze. L’intercapedine tra noi e la realtà, così dilatata, è il luogo di una nuova simbolizzazione del mondo, e ci apre veramente al futuro e all’immaginazione. Il lavoro si appropria così di molteplici universi di sapere e di produttività ideali, potendo legare assieme cultura umanistica e scientifica, letteratura e management, strategie economiche e forti messaggi culturali, tecnologia e artigianalità.

Il nuovo potenziale cognitivo ed esperienziale del “docuverso” in cui siamo immersi (Ted Nelson, anni ’80) rende ogni lavoro a rete, anche se non necessariamente “di rete” o “in rete”. Una rete di persone (sempre più interdipendenti tra di loro), di tecnologie (tra loro ormai dialoganti), di aziende/territori (piattaforme e contesti di legittimazione), di mestieri comunicanti: non una ‘sistematica’ di mestieri-job ciascuno col proprio oggetto, ma un confluire di competenze e di prospettive su progetti comuni.

Tutti sono coinvolti in questa trasformazione, anche perché si stanno ridefinendo i paradigmi che hanno contrassegnato i modelli d’impresa novecenteschi. Non possiamo qui approfondirli, ma almeno due cambiamenti hanno forti implicazioni sul talento diffuso. 

Per prima cosa, sta crollando il funzionalismo, a favore di un rinnovato pluralismo organizzativo, in cui l’organizzazione è interazionale, la persona è gruppale, i ruoli sono poligamici.

Ciò significa che, rispetto alla tradizionale e rigorosa definizione dei ruoli e parcellizzazione delle mansioni (“l’uomo giusto al posto giusto”), le persone dovranno predisporsi a una migrazione delle loro competenze per la soluzione di problemi complessi, in una logica organizzativa corale, per cui il pensiero innovativo sarà necessariamente co-creativo. Dovranno cioè essere disponibili alla contaminazione con altri saperi e con le altre funzioni organizzative; sviluppare la capacità d’interazione e una sorta di ‘accountability della relazione’, in un’organizzazione fondata sulla collaborazione e sul progetto oltre che sul tipo di lavoro. La razionalità top down con relazioni a struttura gerarchica sarà affiancata da una marcata promozione organizzativa bottom up, in una responsabilità decisionale distribuita. Le persone saranno quindi più libere ma allo stesso tempo ‘obbligate’ alla partecipazione. In poche parole, diminuirà il potere verticale ma aumenterà il coefficiente di un’autorità diffusa, che coinvolge necessariamente tutta la popolazione sul luogo di lavoro.

Sta poi offuscandosi l’individualismo metodologico dell’economia neoclassica, fondato sul paradigma che ciascuno tenda a massimizzare il proprio interesse, guidato dalla razionalità dell’Homo œconomicus. Ma, senza neppure scomodare il pensiero economico-sociale di grandi autori che si oppongono a questa visione (a cominciare da Amartya Sen), appare intuitivo che l’agire delle persone è governato dalla ricerca di senso, dal desiderio di felicità e di autodeterminazione, non solo dal proprio interesse.  E che, pertanto, anche sul lavoro si immettono significati ‘eccedenti’ che vanno valorizzati e fatti fruttificare. 

Tutto ciò sta conducendo, finalmente, a una rivalutazione globale del contributo potenziale della persona, che rigeneri le politiche di sviluppo del ‘materiale’ umano. Anziché essere anestetizzato, verrà sempre più accolto e legittimato in azienda il fattore esistenziale delle persone: la storia personale, le spinte immaginarie, le scelte culturali, il carico umano, le possibilità inespresse.

In questa ri-culturalizzazione dell’esperienza di lavoro, aumenta radicalmente il valore del ‘senso’ dell’agire d’impresa e delle persone. Mai come in questa epoca, lavorare in vista di significati diventa centrale per l’azione economica delle aziende e per l’ingaggio della popolazione. 

Oltre al senso vocazionale dell’impresa, che detta la struttura d’ingaggio alle persone (i significati lungimiranti indotti dalla trasformazione digitale), e oltre al senso professionale (come cambiano le prassi organizzative, quali sono le sfide salienti e le nuove competenze), emerge allora il senso umano e personale che tutti possono spendere nell’organizzazione.

Da questo punto di vista, anche le politiche di D&I assumono un ruolo pervasivo nell’impresa, perché ciascuno di noi differisce: ha le sue specifiche peculiarità e caratteristiche, un suo modo di fornire un ‘sovrappiù’ al lavoro.

Riconoscere il potenziale esistenziale delle persone non solo è giusto, ma è conveniente per l’impresa, perché permette una felice coniugazione dei destini individuali con l’identità (e l’anima) dell’azienda per cui e in cui si lavora.

Come farlo è il tema dei prossimi anni, ma un punto di partenza può essere il concetto di capability elaborato da Sen e Martha Nussbaum. Ci riferiamo alle capability individuali (e non a quelle organizzative), che possiamo concepire come la capacità di realizzare e rendere effettivamente operanti le abilità, le aspirazioni e insomma le potenzialità di cui ogni persona è dotata (in italiano il termine è stato tradotto con capacitazione). Le capability sono la fonte di valore delle persone, il criterio di attribuzione di senso al lavoro e, in definitiva, il modo in cui ognuno esplode verso la vita: grazie all’energia vitale, alla fantasia progettuale, all’impegno trasformativo, alla missione d’individuazione dei propri itinerari esistenziali.  

Il talento può così sfociare nella consapevolezza. In fondo, già i percorsi segreti del ‘900 hanno “spinto i ragazzini a sproloquiare di filosofia, i tagliagole a scrivere poesie, le donne a demistificare il femminile” (Greil Marcus). Se chiunque è spronato e legittimato a ‘dare la sua versione’, il talento diffuso potrà venire pienamente alla luce nell’utopia singolare del nuovo mondo. 


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