Diversity, Equity e Inclusion: un’opportunità per valorizzare il talento e l’unicità  

Nel volgere di un breve lasso di tempo, la formula DEI ha conquistato una centralità per un verso inattesa – se si considera la fatica con la quale le aziende hanno preso atto della loro conformazione composita – ma per l’altro comprensibile, o addirittura inevitabile, dentro lo scenario esitato dalle grandi trasformazioni sociali, demografiche e culturali degli ultimi decenni.

La portentosa alterazione nella composizione per età della popolazione (che ha fatto dell’Italia un laboratorio dove sperimentare, per la prima volta nella storia, una società con più anziani rispetto ai bambini e ragazzi), l’evoluzione dei regimi di genere (a lungo rappresentata unicamente nei termini di una questione femminile, ma ormai destinata a far emergere una questione maschile densa di implicazioni per lo stesso mondo del lavoro), il rafforzamento del profilo multietnico e multireligioso della società e del mercato del lavoro (quale effetto dell’accelerazione delle migrazioni e della progressiva stabilizzazione delle comunità immigrate) sono i principali processi che, su un piano squisitamente empirico, danno ampiamente ragione dell’affermarsi nell’agenda politica e nelle stesse pratiche aziendali, dell’attenzione per la diversità – di età, di genere, etnica, religiosa, relativa allo status migratorio e via dicendo – e della preoccupazione per l’equità. Un’attenzione e una preoccupazione alle quali hanno poi dato fiato l’incessante processo di “produzione” di nuove identità/diversità, sul piano culturale e, sul piano istituzionale, l’insieme di vincoli e opportunità (cui si fa riferimento nel contributo di M. Monaci a questa stessa raccolta) che ha incoraggiato l’impegno diretto delle aziende su questo fronte. Non da ultimo, sul piano dell’organizzazione del lavoro, la digitalizzazione ha a sua volta aperto scenari inediti e intrisi di nuove possibilità tanto da meritare – come ci ricorda il contributo di M. Mancuso in questa raccolta – il ricorso alla categoria della “ridondanza”. Ma si tratta di una ridondanza che – lo voglio sottolineare – esige di essere cavalcata con consapevolezza e competenza.

Perché la tecnologia, oggi ancor più di ieri, offre possibilità, magari straordinarie, ma non soluzioni: queste ultime, al contrario, si misurano inevitabilmente col piano etico e valoriale, reclamano una propensione all’auto-riflessività, richiedono di essere co-costruite e condivise, necessitano di essere fondate su processi di reciproco ascolto e apprendimento collettivo. E ciò vale, in particolar modo, proprio per le scelte e le pratiche che hanno a che vedere con la diversità, variamente declinata che costitutivamente veicolano, o addirittura producono, valori e visioni del mondo.

Il quadro demografico attuale e a maggiore ragione gli scenari per il prossimo futuro ci dicono di come la DEI sia una strada sostanzialmente obbligata. Per le aziende, sempre più spesso alle prese con difficoltà di reclutamento e retention e con la complessa gestione di staff decisamente eterogenei, e per la sostenibilità in senso lato dei nostri regimi di accumulazione. Quella che fino a qualche anno fa poteva essere liquidata come “mera” questione di equità – rilevante, dunque, soprattutto sul piano etico – è già divenuta una questione di efficienza: mantenere ampi settori della popolazione ai margini del mercato del lavoro, sottovalutare le loro capacità, trascurare il loro potenziale sono “lussi” che, molto banalmente, non potremo più permetterci. Fenomeni quali l’elevata incidenza di Neet (e, a monte, di studenti che abbandonano precocemente i sistemi formativi), la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro (ancor oggi in larga parte tributaria delle responsabilità familiari), la sovra-qualificazione che colpisce in particolar modo i lavoratori stranieri, l’alta quota di aziende che continua a non ottemperare all’obbligo di assumere i lavoratori con disabilità (di cui ci parla G. Merlo nel suo articolo) sono non soltanto “imbarazzanti” (laddove tradiscono quelle promesse di uguaglianza e inclusività che affermiamo essere alla base del nostro modello sociale) ma sempre più chiaramente insostenibili.

E tuttavia, percorrere la strada della DEI è una scelta per un verso obbligata, come si è detto, ma per l’altro assai impegnativa. E ciò non solo per i molteplici potenziali effetti contro-intuitivi di azioni e pratiche non adeguatamente soppesate e ritagliate sulla realtà (e l’identità) di ogni singola organizzazione, ma anche per l’inevitabile responsabilità che tali azioni e pratiche mobilitano. Nei confronti, in primo luogo, delle persone coinvolte (perché è delle loro vite che ci si sta occupando); quindi, dell’azienda (se crediamo, come ormai unanimemente riconosciuto, nel loro potenziale strategico); infine, della società tutta (per l’inevitabile impatto che esse generano, innanzitutto a livello culturale).

In altri termini, la DEI consegna alle aziende e alle altre organizzazioni di lavoro uno straordinario potere d’azione e di incidenza sul presente e sul futuro della società, ulteriormente moltiplicabile quando le scelte aziendali si inscrivono nel quadro di progetti multistakeholder e perseguono in maniera convinta e consapevole gli obiettivi definiti da una precisa vision. Più semplicemente, ogni azione in questo campo incorpora – magari in maniera inconsapevole – una certa idea di futuro, ciò che chiama direttamente in causa la cultura, l’identità e l’immagine aziendali. Attrezzarsi per essere in grado di muoversi consapevolmente in questo campo – complesso e insidioso per un verso, ma stimolante ed eccezionalmente ricco di opportunità per l’altro – è dunque un atto di responsabilità. Verso le persone, l’azienda, la società di oggi e quella di domani.

Da ultimo, ma non ultimo per ordine di importanza, giova sottolineare come proprio l’abbondanza di possibilità e opportunità – anche su un piano squisitamente relazionale – che costituisce la cifra dell’epoca contemporanea rende ancora più vitali il bisogno di autenticità e il codice della cura, due dimensioni oggi come mai essenziali nelle pratiche di gestione delle risorse umane e dunque nelle stesse azioni di DEI.

La cura, tradizionalmente occultata dentro e fuori i luoghi di lavoro, è assurta nei primi – popolati da persone delle quali occorre innanzitutto “prendersi cura” – a parola chiave, come chiaramente emerge dalla scelta, sempre più diffusa, di ribattezzare nei termini di people care la “vecchia” funzione HR. Guardando al di fuori delle mura aziendali, l’attività di cura si trasforma da vincolo da conciliare col lavoro “vero” a componente fondamentale della persona, palestra per l’acquisizione di saperi e conoscenze preziose, occasione privilegiata per riappropriarsi delle dimensioni costitutive dell’umano quali sono la vulnerabilità e la relazionalità. In tale luce, è anche possibile meglio afferrare il significato dell’equità e dell’inclusione, concetti non riducibili ai principi e agli obiettivi – peraltro fondamentali e sempre da presidiare – di non discriminazione, pari opportunità, costruzione di ambienti di lavoro in cui ognuno possa essere accolto e valorizzato, ma costitutivamente evocativi di una dinamica di reciprocità senza la quale non sarebbe neppure possibile sprigionare il valore aggiunto della diversità. Giacché, giova ricordarlo, la diversità non è una caratteristica personale, bensì il riflesso del profilo plurale ed eterogeneo di una popolazione aziendale.

Dal canto suo, il bisogno di autenticità – spesso maldestramente ridotto alla esasperazione del diritto individuale a scegliere senza vincoli e legami (ossia alla dimensione della libertà di e da) – riflette, in realtà, quella ricerca di senso (del lavoro e della vita, ovvero la libertà per) ormai decisamente avviata a diventare una delle sollecitazioni più impegnative per chi si trova a gestire le persone. Ma qui sta pure la bella notizia: è proprio facendo spazio alla ricchezza costitutiva di ogni esistenza umana che diventa più agevole snidare i talenti nascosti, rigenerarne il potenziale per la stessa performance organizzativa, produrre significati in grado di calamitare nuove energie e di riallineare l’immagine aziendale con la sua identità più profonda. Da “mera” strategia di attrazione e retention – come non di rado la si intende – la DEI diventa allora l’asse lungo il quale si cristallizza la finalità stessa del fare impresa. O, per meglio dire, dell’essere impresa


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