La funzione HR come attore chiave nelle politiche DEI

Una basilare consapevolezza che ormai dovrebbe accompagnare quanti a vario titolo si interessano di pratiche DEI (Diversity, Equity, Inclusion) nei contesti aziendali è la seguente: in questo campo, un impegno serio – cioè condotto in un’ottica strategica e di sostenibilità nel lungo periodo – non può che svilupparsi sotto forma di “impresa” partecipata. Ciò significa riconoscere come, per costruire un percorso di successo in grado di generare sia benessere per le persone che salute organizzativa, siano necessari una combinazione di elementi e, in particolare, il contributo di una molteplicità di attori.

A giocare un ruolo imprescindibile, ovviamente, è in primo luogo la leadership dei livelli apicali. Senza la sponsorship, la partecipazione e l’esempio personale del vertice d’impresa, qualsiasi iniziativa per la valorizzazione della diversità è tendenzialmente destinata a fallire. Non meno rilevante risulta il coinvolgimento dei manager di linea con significative responsabilità nelle funzioni core dell’azienda, nonché dei manager intermedi. Sono, infatti, soprattutto queste figure, in particolare il middle management, a relazionarsi quotidianamente con le persone e quindi a incidere più direttamente – nel bene o nel male – sulla qualità della vita lavorativa di queste ultime e sulla possibilità che esse siano poste nella condizione di esprimere il loro specifico potenziale. Indubbiamente cruciale appare poi, quasi per definizione, la funzione svolta dagli specialisti delle aree HR e CSR/Sustainability. Mentre sul primo caso ci si concentrerà sotto, per il secondo basti pensare a come oggi le pratiche DEI siano considerate e valutate quali espressione primaria della performance sociale delle imprese. Lo possiamo immediatamente constatare guardando al valore di impatto sociale attribuito a questo genere di indicatori all’interno di sustainability reports, dichiarazioni non finanziarie, rendicontazioni di società benefit e B-Corp e certificazioni volontarie (dalla SA 8000 alla ISO 30415 dedicata a HRM-D&I, per non parlare della recente certificazione italiana UNI PdR 125 per la parità di genere). Infine, decisivi si rilevano i processi di disseminazione e condivisione nell’intero sistema, sia formali che informali, che nel medio-lungo termine portano alla formazione e/o al consolidamento di una cultura aziendale autenticamente inclusiva.

In questo quadro, l’azione dei professionisti HR merita un’attenzione distintiva in quanto configura un contributo a più livelli

Il primo e più evidente livello riguarda l’incorporazione diretta delle priorità DEI, ossia il modo in cui l’implementazione delle canoniche attività del ciclo HR può e dovrebbe attuare il riconoscimento della diversità in una prospettiva di equità e valorizzazione. Per fare solo alcuni semplici ma significativi esempi, ciò accade quando: a) nell’ambito recruiting & selection, si lavora per disinnescare filtri discriminatori sovente impliciti (tanto più nell’e-recruiting) e si ricercano candidati in bacini non tradizionali per l’azienda; b) nel campo della formazione & sviluppo, si realizzano progetti di mentoring per target di collaboratori con peculiari bisogni di rafforzamento di competenze, si eroga formazione dedicata a skill per l’interazione con la diversità (p.es., la comunicazione interculturale) e si applicano gli strumenti del talent management a categorie di personale solitamente ai margini dei programmi di sviluppo degli alti potenziali (p.es., i lavoratori immigrati); c) nell’area valutazione & compensation, si elaborano soluzioni di total reward anche in base ai bisogni differenziati delle persone (p.es., calibrando i servizi di welfare aziendale) e si predispongono sistemi di performance assessment e incentivazione del management riferiti anche al conseguimento di obiettivi nella gestione della diversità.

In secondo luogo, gli HR manager occupano una posizione privilegiata non solo per l’operazionalizzazione ma anche – più a monte – per la definizione e l’evoluzione di un’agenda DEI, potendo esercitare un delicato ruolo di networking e, per così dire, “politico” rispetto ad altre parti in prima linea su tale versante. Ciò è fondamentale ai fini dell’approccio sistemico richiesto da questo impegno e riguarda innanzitutto la relazione con il top management, nel contesto della quale la funzione HR può aiutare a ispirare la politica DEI, suggerendone precisi obiettivi, sulla scorta della propria specifica conoscenza di situazioni e bisogni relativi al capitale umano dell’impresa, a partire dalla demografia aziendale. In tal senso, ad esempio, non è raro che un ambizioso programma di age management abbia la possibilità di svilupparsi grazie al forte appoggio del vertice conseguente a una convincente operazione di issue-selling, attraverso dati e proiezioni sull’anzianità dell’organico, da parte dell’area HR. Un altro interlocutore di primo piano con cui i professionisti HR hanno una singolare opportunità di interfacciarsi a beneficio dell’avanzamento degli impegni DEI dell’azienda è costituito dall’area sustainability, che essi possono supportare tanto nella pianificazione quanto nella rendicontazione dell’impatto sociale complessivo dell’impresa fornendo o co-creando metriche relative al people management.

A un terzo livello, lo staff HR può intervenire in maniera sostanziale nei processi di sviluppo o cambiamento culturale sui quali gli impegni DEI, per radicarsi dopo le sperimentazioni e oltre le mode, inevitabilmente si sostengono. Nel campo DEI come in altri, l’attuazione di pratiche e linee-guida deve “incastonarsi” nella cultura aziendale, ossia l’insieme di assunti, credenze e valori condivisi che orientano (e comunque influenzano) manager e dipendenti nelle loro operazioni quotidiane. L’implementazione di strumenti e progetti difficilmente riesce a raggiungere i propri obiettivi quando la cultura organizzativa è refrattaria al cambiamento. Nel vitale ambito delle dinamiche culturali, qui quelle in grado di incrementare la sensibilità, l’apertura e le competenze delle persone in modo coerente con l’integrazione di attenzioni DEI, notevole è il potenziale d’azione nelle mani degli HR professionals. In larga parte, esso nuovamente si lega alle loro attività istituzionali, che in questo caso assumono una valenza simbolica, oltre che tecnica, veicolando chiari messaggi su ciò che “è importante per l’azienda”: ad esempio, nel reclutamento, inserendo temi DEI nei colloqui di selezione e attribuendo esplicito valore a interessi ed esperienze dei candidati in quest’area; nella formazione & sviluppo, predisponendo programmi di awareness-raising (prima ancora che di skills development) per tutti i livelli organizzativi e realizzando altre iniziative con incentivi alla partecipazione (p.es., workshop con stakeholder esterni impegnati sul fronte dell’inclusione socio-lavorativa); nella valutazione & compensation, accentuando la visibilità collettiva degli incentivi che premiano comportamenti e risultati coerenti con gli obiettivi DEI. In modo più sottile, inoltre, gli HR manager possono incidere fortemente sui processi di sviluppo di una cultura d’impresa inclusiva grazie alla loro caratteristica condizione di rappresentare un punto di passaggio centrale nella rete delle ordinarie relazioni organizzative e nel tessuto della vita aziendale quotidiana.

In conclusione, grande è l’opportunità (e la responsabilità) dei professionisti HR non solo di agire come attuatori o facilitatori delle politiche DEI, ma anche – più profondamente – di partecipare in modo diretto e saliente sia alla loro identificazione e costruzione in base alla situazione aziendale, sia alla creazione delle risorse culturali necessarie per il loro successo. Riprendendo un paio di classici concetti del guru dello Human Resource Management Dave Ulrich, proprio questo complessivo e complesso impegno appare uno dei fronti su cui oggi più si gioca il ruolo della funzione HR come “partner strategico” e “agente di cambiamento” nella gestione d’impresa.


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