Progettazione inclusiva di prodotti e servizi

Mi è capitato molte volte in passato, e mi capita ancora, nel ricevere indicazioni dal committente sui requisiti di un nuovo prodotto o servizio digitale, che alla domanda «per chi è?», la risposta immediata, scontata, istintiva, sia: «per tutti».

Superficialmente corretta nell’ottica di un design inclusivo, l’affermazione è in realtà estremamente rischiosa nel lavoro di progettazione. Come sa bene infatti qualsiasi designer con un minimo di esperienza alle spalle, il “design per tutti” non esiste.

Ma facciamo un passo indietro. In un tipico processo di user-centered design, il processo che prende le mosse dalla metodologia del design thinking codificata negli anni ‘90 da David Kelley e Tim Brown di IDEO, ormai canonizzato e adottato – con qualche variante – da tutti i maggiori studi di design, agenzie e società di consulenza, il primo passo consiste nella fase di “empatizzazione”.

A partire da analisi di dati, interviste con potenziali utenti o esperienza diretta, il designer ha l’obiettivo di delineare una serie di “personas”: le rappresentazioni fittizie, ma basate su osservazioni reali, degli utenti tipo che utilizzeranno il servizio o il prodotto in questione. Al di là della bontà o meno del metodo (vi è inevitabilmente un certo livello di astrazione e di arbitrarietà, che più volte negli anni ha fatto nascere varianti e tecniche alternative) rimane comunque un esercizio utile proprio a mantenere alta la concentrazione del designer su quelle che sono le esigenze reali e specifiche degli utenti per cui progetta. Progettare ‘per tutti’, o nella peggiore delle ipotesi, progettare per sé stessi, basando le proprie scelte di design su un insieme onnicomprensivo e generico o sulla propria esperienza personale, significa progettare per – quasi – nessuno.

In quest’ottica, l’inclusività è connaturata al processo di user-centered design: proprio perché non è mai per tutti, il design deve avere come presupposto la volontà di rendere l’esperienza intuitiva e accessibile a potenziali utenti che hanno abitudini, modelli mentali e caratteristiche fisiche e psicologiche diverse da chi la progetta. La persona con disabiltà, neurodivergente, con differenze culturali o di genere o limitazioni tecnologiche è a maggior ragione una ‘persona’ in termini di design, e non prenderla in considerazione in quanto potenziale utilizzatore rappresenterebbe un fallimento della metodologia.

Nel corso della mia pratica di designer ho avuto la fortuna di trovarmi alle prese con la progettazione nei più svariati ambiti: dalla segnaletica alla robotica, dall’IoT al gaming, dalla dimensione urbana a quella ridotta di un computer o dello schermo di uno smartphone. Ho lavorato in centri di ricerca, studi di architettura, startup tecnologiche per approdare infine nel mondo delle agenzie creative. E nonostante tutto ho sempre fatto lo stesso lavoro: applicare il metodo dello user-centered design, variandolo e adattandolo a seconda dei casi, per arrivare alla creazione di esperienze a cui le ‘personas’ potessero accedere in modo semplice e intuitivo.

In particolare, assumendo il ruolo di Head of Experience Design in Havas CX Italy – l’agenzia nata a ottobre 2020 dal gruppo Havas Creative e parte di un network internazionale con focus sulla Customer Experience –  ho iniziato a consolidare l’esperienza acquisita in un metodo ben definito e condiviso da tutto il team, che ha quindi l’inclusività come costante. La fase di ‘empatizzazione’ si concretizza in un uno o più momenti di workshop in cui designer e cliente, assieme, sono invitati a vestire i panni di ciascun potenziale utilizzatore del servizio – anch’esso idealmente presente – per ragionare su come ogni fase dell’esperienza possa rispondere alle esigenze di quel particolare utente.

A questo si aggiunge poi, trattandosi molto spesso di progetti che hanno a che fare con il design di interfacce grafiche, l’attenzione a tematiche di accessibilità. Dal banale contrasto di colore alla dimensione dei caratteri in una pagina web, dall’integrazione di tool per la lettura automatica alla presenza di testo alternativo per le immagini. Per poi uscire a volte anche dalla bidimensionalità di un display: di recente, per fare un esempio, abbiamo ragionato su come garantire la fruizione di un’esperienza in realtà virtuale sia stando in piedi che seduti.

Ciò detto, è bene ricordare che design inclusivo e design accessibile non sono sinonimi. Il primo, come abbiamo visto, è un concetto che deve essere connaturato alla metodologia di design, il secondo è una delle sue possibili conseguenze. Potrei ad esempio decidere, come ultimo passaggio nel pubblicare una pagina web, di aggiungere un testo alternativo che descriva il contenuto di un’immagine a beneficio di un utente ipovedente. E sarebbe sicuramente una buona pratica, in linea con le linee guida nazionali ed europee in merito. Ma se ho preso in considerazione fin da subito tutte le potenziali ‘personas’ di quella pagina, le loro esigenze e gli scenari in cui esse si potrebbero trovare ad utilizzarla, allora farò probabilmente in modo che l’immagine non sia soltanto accompagnata da un testo alternativo ma che sia anche, magari, il più possibile leggera in termini di kilobyte – perché l’utente potrebbe avere una velocità di connessione limitata; adatta ad una visualizzazione verticale o orizzontale – a seconda del dispositivo con cui l’utente si trova a navigarla; non essenziale alla comprensione del contenuto della pagina – perché l’utente potrebbe non visualizzarla del tutto o non comprenderla; e così via.

Può sembrare che tutte queste considerazioni pongano limiti eccessivi al lavoro del designer, ma una volta imparate ed interiorizzate agiscono al contrario come stimoli alla creatività, un po’ come le righe di un pentagramma musicale o le regole di un gioco. Non è raro inoltre che molte delle scelte di design determinate dall’attenzione ad una particolare tipologia di utenti portino vantaggi anche a tutti gli altri: è il bello dei casi limite. Ricordo la testimonianza di un ingegnere aerospaziale, conosciuto durante una visita con i miei studenti in un’azienda italiana del settore, che ci raccontava come la tecnologia brevettata per evitare la dispersione di liquidi in una macchina per il caffè espresso progettata per gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale – un tipo molto particolare di ‘personas’ – fosse poi stata riadattata per le macchine del caffé terrestri, riducendo lo spreco d’acqua.

Ma senza andare nello spazio, e per tornare allo stesso esempio di prima, ridurre il peso di una immagine significa alleggerire il consumo energetico del sito che la ospita, generando un beneficio collettivo in termini di sostenibilità. Un’interfaccia semplice e chiara, predisposta per la lettura da parte di screen reader per persone ipovedenti è anche meglio interpretabile, per esempio, da un sistema di intelligenza artificiale interrogato da una persona che ha semplicemente le mani occupate.

Un ultimo aspetto, non meno importante, del design inclusivo è quello che riguarda l’inclusione e la parità di genere. In una società che ancora fatica a stare al passo con una concezione sempre più aperta e fluida dell’identità di genere è responsabilità del designer non solo rispettare, ma anche anticipare e – in qualche modo – educare gli utenti a comprendere e accettare la diversità.

Un esempio: di recente ci siamo trovati a progettare, con il team di Experience Design in Havas CX Italy, il processo di registrazione ad un’app nella quale era utile per le finalità dell’applicazione stessa conoscere il genere degli utenti. Nel passaggio dedicato, la tipica scelta ‘uomo / donna / altro’ non avrebbe fatto che rafforzare una visione tradizionale in cui tutto ciò che non ricade nella distinzione classica tra maschile e femminile è riassumibile in un insieme generico, non degno di una ulteriore specificazione. Abbiamo invece deciso di integrare più di 20 diversi generi, mantenendo la scelta aperta e libera, e introducendo forse una lieve frizione nell’esperienza di un utente che è abituato a scegliere tra due sole opzioni. Frizione positiva, che nel semplice porre sullo stesso piano tutte le possibilità veicola verso l’utente come un dato di fatto l’esistenza di una pluralità identitaria.

Questo mi porta, infine, ad una constatazione importante, riassumibile in una similitudine che mi è sempre stata cara: quella tra architettura e design. Fin dall’antichità l’uomo ha vissuto, lavorato e socializzato in spazi progettati. L’architettura è la disciplina che si occupa di disegnare questi spazi, e non è mai una semplice manifestazione della cultura vigente. Proprio perché progetta – oggi – spazi che saranno occupati – domani – ha il potere di dare forma a comportamenti nuovi, nuovi modi di vivere, di lavorare e di interagire. In un mondo in cui gli spazi digitali sono sempre più importanti, al designer di esperienze utente è dato lo stesso compito fondamentale: riconoscere, accompagnare, e spesso anche anticipare, tramite opportune scelte di design, l’evoluzione della società verso un futuro più inclusivo.