Leave no one behind: l’inclusione nella prospettiva dei diritti.

Negli ultimi anni assistiamo ad una fase di accresciuto interesse nei confronti di iniziative e programmi sui temi di diversity and inclusion. Con buona pace di chi derubrica come washing le spinte evolutive della società, e nonostante alcuni atteggiamenti che sicuramente sono di facciata, è un fatto che sono in crescita l’impegno e gli investimenti degli attori economici nella direzione di una sempre maggiore assunzione di responsabilità sociale nei confronti delle disuguaglianze e discriminazioni.

Su questo l’Agenda 2030 parla chiaro: «Leave no one behind» (non lasciare indietro nessuno).

In questo clima e grazie all’attivismo delle persone con disabilità e dei loro famigliari, la sensibilità generale nei confronti del tema disabilità, indubbiamente è aumentata. Tuttavia rimane alto il rischio – anche tra addetti ai lavori – di rimanere ad un livello di buoni sentimenti e buona volontà. Finché infatti la condizione delle persone con disabilità non si ponga in termini di esigenza delle condizioni strutturali per la piena applicazione dei diritti umani e di cittadinanza è inevitabile rimangano immodificate alcune discriminanti di fondo. Tra tutte l’idea che la persona con disabilità viva una condizione tale da giustificare di venire collocata in una regione di diminuzione della cittadinanza in termini di condizioni concrete per l’esercizio dell’autodeterminazione, della libertà e delle aspirazioni di futuro.

Chi ha una disabilità infatti studia, lavora e guadagna meno della restante popolazione, fatica a formare una famiglia propria, a trovare una casa in affitto, a partecipare alle attività del quartiere e della comunità e, a meno di sforzi specifici da parte della famiglia, non ha alternativa a frequentare o vivere in luoghi specializzati e separati. La vita quotidiana è disseminata di barriere materiali e immateriali che limitano o impediscono la mobilità fisica e sociale e ancora succede – nonostante il nostro sia un paese ad alto livello di integrazione scolastica – che sia precluso l’accesso a esperienze formative se siano previsti soggiorni fuori città. L’accesso ai servizi sociali e sanitari, di base o specialistici, è burocratico, macchinoso e intermittente e questo è sistematicamente scaricato sull’organizzazione della vita familiare, che peraltro spesso risulta aggravata da disomogeneità di genere (non è infrequente infatti che siano le madri a passare a part-time per sostenere il carico di cura). Infine – si veda la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private di libertà personale (2022) – le persone con disabilità, nel corso della loro vita, sono più a rischio di vivere condizioni di segregazione o violenza, abusi e trattamenti degradanti. Tutte situazioni, quelle elencate, che si amplificano in caso di discriminazione multipla per età, nazionalità, genere e orientamento sessuale.

Si dirà che ci troviamo di fronte a storie di non-autosufficienza e che stiamo parlando di persone con deficit funzionali e bisogni limitati tali per cui non sono pensabili sostegni strutturali per l’esercizio della libertà come previsto per tutti gli altri cittadini. Eppure, a questo proposito, la Convenzione sui diritti deL!e persone con disabilità dell’ONU (CRPD), ratificata da 184 Paesi parte, apre uno scenario di riferimento giuridico, culturale e politico irreversibile. Si tratta di una trasformazione culturale e politica profonda: si è passati infatti da un paradigma che si rivolge alla persona con disabilità a partire dai suoi bisogni, ad un paradigma che chiede alla società nel suo insieme di riconoscere diritti umani. Le persone con disabilità, in questa prospettiva, escono dalla regione semantica e giuridica della specialità e dif-formità (per de-formità) dalla norma, per diventare parte integrante delle diversità del genere umano e di qualsiasi società umana avanzata, chiamata pertanto a garantire il godimento della «piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri>>.

La CRPD è stato il risultato di un processo storico che nasce negli anni ’60 cd è stata resa possibile dal lavoro di rivendicazione, da parte del movimento mondiale delle persone con disabilità, di una nuova base culturale per la lettura della propria condizione. Questo ha portato al superamento del ‘modello medico/individuale’ tale per cui le persone con disabilità sono da considerarsi sotto la fattispecie del malato e dunque oggetto di garanzia di protezione sociale e cura. Il ‘modello sociale’ affermato nella CRPD vede nella condizione di disabilità l’esito della relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità (e sostegni) attraverso le quali la società organizza l’accesso e il godimento di diritti, beni e servizi. A partire da questa prospettiva: ‘La persona con disabilità si trova in condizione di disabilità non perché si muove con una sedia a rotelle, perché comunica con il linguaggio labiale, si orienta con un cane guida, si relaziona a cuore aperto, ma perché gli edifici sono costruiti con le scale, si pensa che comunicare sia possibile solo attraverso il linguaggio orale, orientarsi sia possibile solo attraverso l’uso della vista e si pensa che le persone che non possono rappresentarsi da sole non debbano essere considerate titolari degli stessi diritti umani degli altri cittadini.’1 Questa rivoluzione copernicana cambia la visione sulla condizione sociale delle persone con disabilità e permette di fare luce sulle continue violazioni dei diritti umani subite.

Sono passati quasi vent’anni dalla promulgazione della CRP e quasi quindici dalla ratifica da parte del Governo Italiano. La diffusione del valore culturale e normativo e la conoscenza tra gli addetti ai lavori­ educatori, operatori, coordinatori dei servizi, assistenti sociali etc. – del testo della Convenzione sono ancora purtroppo limitate. Tuttavia ci troviamo nel mezzo di un processo di cambiamento che potrebbe dare ai temi diversity and inclusion una nuova sostanza politica e quindi efficacia reale.

Il 22 dicembre 2021 è stata infatti promulgata la legge n. 227 di Delega al Governo in materia di disabilità, la quale conferisce ampi poteri di revisione e riordino delle disposizioni vigenti. In attuazione del dettato costituzionale, in conformità alle disposizioni della CRPD, alla Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021- 2030 (adottata a Marzo 2021 dalla Commissione Europea) e alla Risoluzione del Parlamento europeo del 7 ottobre 2021 sulla protezione delle persone con disabilità, anche il Governo italiano sembra muoversi con decisione per un cambiamento che sia sostanziale. Come suggerito nella Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (2022)2 tale movimento nasce ‘dall’impatto prepotente – in termini di mortalità, morbilità e restrizioni alla socialità – che l’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha avuto sulla popolazione anziana e/ o con disabilità residente. Infatti, per uno strano effetto collaterale, la crisi Covid-19 ha fatto da acceleratore lineare delle istanze di transizione dalle istituzioni residenziali alla vita di comunità in moto da diverso tempo. Così, già nel giugno 2020, solo pochi mesi dopo lo scoppio della pandemia, nel Rapporto per il Presidente del Consiglio dei ministri, Iniziative per il rilancio, elaborato dal Comitato di esperti in materia economica e sociale, si raccomanda «la costruzione di un’alternativa al ricovero in Rsa e Rsd tramite progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati e di vita indipendente per persone con disabilità, minori, anziani, persone con disagio psichico [… ]»3

Con l’obiettivo di accelerare quindi i processi di deistituzionalizzazione delle persone con disabilità la Legge 227/2021 individua nel progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato lo strumento deputato a garantire «l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali», tra cui, in conformità all’articolo 19 della CRDP, «la possibilità di scegliere, in assenza di discriminazioni, il proprio luogo di residenza e un’adeguata soluzione abitativa, anche promuovendo il diritto alla domiciliarità delle cure e dei sostegni socio-assistenziali [… ]». Nel testo della legge viene anche posto come specifico criterio direttivo la necessità di assicurare l’adozione degli accomodamenti ragionevoli necessari a consentire l’effettiva individuazione ed espressione della volontà dell’interessato, la sua piena comprensione delle misure e dei sostegni attivabili, al fine di « garantire alla persona con disabilità, anche quando sia soggetta a una misura di protezione giuridica o abbia necessità di sostegni ad altissima intensità, la piena partecipazione alla valutazione multidimensionale, all’elaborazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato e all’attuazione dello stesso con modalità tali da garantire la soddisfazione della persona interessata».

In attesa che vengano emessi i decreti attuativi della Legge 227/2021 possiamo per ora sottolineare la rilevanza di un allineamento così potente tra istanze che riconoscono la necessità di un cambiamento sistemico e che spingono fortemente nella direzione dell’innovazione sociale e dell’empowerment delle persone e delle comunità. Qualunque processo di deistituzionalizzazione infatti passa proprio da percorsi di empowerment dei gruppi sociali, delle comunità e delle reti coinvolti, avendo come obiettivo la promozione delle capacità4 e del potere di controllo sulle propria vite e sul proprio futuro. Su queste basi ha senso guardare all’urgenza e rilevanza della promozione di processi orientati al design /or all, alla progettazione universale e all’inclusive design ed è nuovamente la CRPD a chiarire e orientare il mandato in questa direzione. Al di là delle differenze metodologiche dei vari approcci «per ‘progettazione universale’ si intende la progettazione di prodotti, strutture, programmi e servizi utilizzabili da tutte le persone, nella misura più estesa possibile, senza il bisogno di adattamenti o di progettazioni specializzate. La ‘progettazione universale’ non esclude dispositivi di sostegno per particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari.» (art.2).

Anche in questo caso siamo di fronte ad una rivoluzione copernicana: progettare diventa una necessità di evoluzione e trasformazione della società e non di protezione e cura delle persone con disabilità. Sotto questo profilo, oggetto della progettazione non sono più i bisogni speciali della persona con disabilità ma la promozione di processi, prodotti e contesti accessibili a chiunque, compreso chi abbia necessità di sostegni specifici laddove necessari. L’affermarsi dei temi legati alla progettazione universale, va ricordato prescinde dalla questione delle disabilità e allarga il campo al tema della messa in discussione del presupposto abilista. Si tratta infatti di tendenze in crescita anche in virtù di fattori quali l’invecchiamento della popolazione: entro il 2050 la proporzione di anziani tenderà a raddoppiare, passando dall’11% al 22% della popolazione totale. Nei prossimi 5 anni, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero di individui di età uguale o superiore a 65 anni supererà quello dei bambini al di sotto dei 5 anni.

L’arco che abbiamo voluto brevemente tratteggiare (CRPD, modello sociale, deistituzionalizzazione, progetto di vita individuale, progettazione universale, abilismo) costituisce la base culturale a partire dalla quale è possibile riconoscere reale efficacia trasformativa alle iniziative di inclusione delle persone con disabilità: se incorporate in una prospettiva dei diritti, infatti, le iniziative tese a sviluppare nuove professionalità della progettazione inclusiva potranno senza dubbio contribuire all’impegno comune per uno sviluppo umano che non lasci indietro nessuno.

1 Minority Report, Cultural Disability Studies, 6, 2018: 116

2www.garantenazionaleprivatiliberta.it

3 Governo italiano, Iniziative per il rilancio, pag.40

4 Su cosa si intende per ‘capacità’, per brevità, rimandiamo al lavoro di Nussbaum e Sen.