Il senso dell’Inclusione: saper Osservare, Empatizzare e Progettare per tutti.

Molti anni fa, il passato remoto è d’obbligo visto che si tratta del 2012, andai ad assistere a una lezione di un professore del Politecnico di Torino. L’ospite era di assoluto rilievo: una delle prime programmatrici non vedenti al mondo assunta da una nota compagnia informatica. Dopo aver raccontato parte della sua vita professionale, collegò il suo smartphone all’impianto audio dell’aula, lo posizionò sotto la telecamera e ci mostrò come interagiva. Un’aula intera composta per lo più da ingegneri informatici e due designer, tra cui il sottoscritto, rimase impietrita. L’assistente vocale parlava a una velocità tale che faticavamo a comprendere le parole; la sua mano sinistra afferrava con sicurezza lo smartphone mentre le dita della mano destra tracciavano gesture rapidissime senza alcun tentennamento né errore. 

La domanda silenziosa che aleggiava in aula era: ma come fa? 

Ero andato a quella lezione perché avevo da poco terminato il mio dottorato di ricerca sui temi dell’Interaction Design, e cominciavo a studiare le diverse modalità con cui il digitale poteva avere un impatto positivo sulla vita quotidiana, anche sulle persone con disabilità. Quell’incontro fu uno dei tasselli fondamentali per costruire una prospettiva veramente inclusiva nel mio percorso di ricerca, ovvero l’evitare sempre e comunque un atteggiamento paternalistico, considerandomi una sorta di deus ex machina risolutore. Includere significa saper osservare, empatizzare e, di conseguenza, progettare da piccoli dettagli a interi servizi che siano cuciti addosso alle esigenze e ai comportamenti delle persone. Qualsiasi persona. La dimostrazione di questo pensiero, piuttosto semplice ma decisamente di impatto, è che davanti a noi non avevamo una persona con disabilità da aiutare, sostenere, educare. Davanti a noi avevamo una expert user che conosceva molto bene non solo l’interfaccia, ma anche l’immagine del sistema, propria dei soli progettisti. 

In quegli anni cominciai, quindi, una serie di ricerche che presi a categorizzare come caratteristiche della social inclusion, spaziavano da sistemi per bambini e bambine affetti da autismo e sindrome di Asperger, in collaborazione col centro CASA di Mondovì, ad app per bambini diabetici, a sistemi futuribili per fare la spesa in autonomia per persone anziane e/o non vedenti, solo per fare qualche esempio. Ora, è lampante che in questi casi al centro vi siano persone con disabilità, malattie più o meno debilitanti, anziani. Sembra quasi di progettare per una nicchia. Ma torniamo per un attimo all’aneddoto iniziale, siamo sicuri che l’assistente vocale su uno smartphone sia di esclusivo utilizzo di non vedenti? Se così fosse, nessuno di noi avrebbe mai utilizzato Siri, Alexa, Google Assistant e altre interfacce vocali. Siamo certi che le gesture su un touchscreen, al contrario, possano essere compiute solo fissando uno schermo? Se stiamo guidando, ad esempio, è sconsigliabile, sperimentazione che abbiamo condotto diverse volte in collaborazione con big player del settore automotive. Questo è il secondo assunto da considerare, se si progetta per l’inclusione sociale: sicuramente il progetto/prodotto/artefatto/sistema potrà essere scalato su altre esigenze e bisogni. Proseguo con un altro aneddoto.

Nel suo recente intervento all’assemblea della Società Italiana di Design Pete Kercher – Ambassador at EIDD (Design for all Europe), e molto altro – sottolineava quanto il ragionare per esclusione fosse strategicamente folle. Dopo aver fatto alzare in piedi una platea di circa 300 designer, chiedeva di sedersi (e quindi escludere) coloro che portavano gli occhiali, poi coloro che avevano genitori anziani bisognosi di assistenza, quindi coloro che sono alle prese con una prima gravidanza, poi coloro che hanno chiesto un aiuto psicologico per affrontare i disastri sociali causati dalla pandemia da Covid-19, e così via. Ad ogni domanda, la platea vedeva progressivamente ridursi il numero delle persone in piedi. Erano/eravamo, forse, loro/noi le persone con disabilità? La risposta di Pete è che tutti, a volte per azioni specifiche, a volte per periodi brevi, a volte per periodi purtroppo molto lunghi fanno esperienza della disabilità. 

Fino all’avvento del digitale in modo pervasivo nelle nostre vite, la progettazione inclusiva – che veniva in qualche modo racchiusa nella metodologia dello Human Centred Design – era focalizzata principalmente su tre concetti: l’ergonomia, l’accessibilità, l’usabilità. Si tratta di temi ancora oggi fondamentali, che venivano declinati soprattutto dal punto di vista tangibile, materico, dimensionale, architettonico. L’uso massivo, permeante, continuativo della connessione Internet e dei servizi digitali ha, invece, rappresentato, dai primi anni ’80 in poi, al tempo stesso lo strumento e il canale di accesso fondamentale per ogni individuo, per quanto riguarda tutti i settori della vita: salute e benessere, denaro, lavoro, informazione, trasporti, tempo libero. In questo contesto quotidiano, si fa largo il concetto di User Experience, dapprima una sorta di approccio al progetto, per poi diventare vera e propria disciplina e, di conseguenza professione. Sfido chiunque a trovare un campo che oggigiorno non necessiti di studi e, di conseguenza, progetto, sull’esperienza che le persone ricercano o, al contrario, che vogliono evitare a tutti i costi. La UX, difatti, ragiona per touchpoint che vengono individuati in base ai comportamenti degli utenti, analizzati e resi archetipi attraverso la creazione delle Personas. Alcuni touchpoint devono essere estremamente positivi (moment of truth), altri vanno adeguatamente considerati come parte dell’esperienza globale, ma sono rischiosi (pain point), altri ancora devono essere così caratterizzati da trascinare le persone all’interno del sistema generando fiducia, accettazione e molto altro (entry point). 

Attualmente, i dati mostrano che figure professionali con competenze di UX sono sempre più ricercate nel mondo del lavoro, anche sul territorio piemontese, a dimostrazione del fatto che il digitale non è appannaggio esclusivo di alcune zone specifiche del pianeta, né di alcuni territori nazionali. Mi permetto, inoltre, di aggiungere che non è uno di quei lavori che passerà di moda, né tantomeno potrà essere fagocitato dall’Intelligenza artificiale. Le macchine non empatizzano. 

Credo quindi che sia dal punto di vista culturale, che professionale, che lavorativo, la UX non possa esimersi dal progettare in modo inclusivo. E soprattutto, che non possa prescindere dai paradigmi della fattibilità non solo tecnologica, ma anche del sistema stesso. Il digitale impone una visione relazionale, connessa, sistemica, in cui i prodotti sono sempre collocai all’interno di un servizio. Per fare in modo che un servizio sia efficiente, efficace, soddisfacente per le persone, ma anche perfettamente funzionante, innovativo, sostenibile (in tutte e tre le declinazioni che questo concetto prevede), non si può più prescindere dalle competenze del management e dell’economia durante l’intero arco del processo di progettazione. 

Molti di noi avranno sperimentato con mano una comune app per il car sharing, testandone talvolta la scarsa reattività, talvolta la ridondanza di richieste di conferma; ma senza un’effettiva presenza di vetture sul territorio, senza un’adeguata manutenzione e pulizia costante, senza un servizio di assistenza per le emergenze, la app da sola può fare poco, per quanto ineccepibile nella sua UX. In conclusione le competenze sulla UX e l’approccio inclusivo al progetto dovrebbero diventare sempre più un pre-requisito al progetto. Inoltre, il Design insieme al Management, all’Economia e molte altre discipline, ha sicuramente un ruolo di connessione sociale, proprio perché deve farsi interprete di esigenze sempre più personali, all’interno di sistemi sì complessi, ma anche malleabili e fluidi in cui la persona è centrale durante l’intero arco dell’esperienza.