Il fuoco dell’innovazione tra tecnologia, emergenza e sostenibilità
Da ormai molto tempo mi occupo quotidianamente di innovazione e la mia esperienza, per via delle mie passioni e del mio lavoro, è molto orientata alla tecnologia e allo sviluppo di prototipi.
Da qualche anno, sempre più spesso ci viene chiesto di sviluppare soluzioni che non solo hanno le tipiche finalità guidate dal business – volte a esplorare o a rendere più efficiente un prodotto, un processo o un servizio – ma che siano spinte anche dal desiderio di rispondere anche alle sfide della sostenibilità.
Chi mi conosce sa che sono abbastanza secchiona e che non amo parlare di ciò che non ho studiato (in questo caso amo ascoltare!) e sento un certo imbarazzo quindi ad affrontare un tema così complesso e stimolante come quello della sostenibilità approfondito da esperti illustri e molto più preparati di me. Voglio però condividere con voi una riflessione che parte dal mio terreno di gioco e cioè capire come l’innovazione può essere una delle leve per la sostenibilità. Per farlo inizierò raccontandovi una storia che mi ha fatto scoprire un amico per poi presentarvi un caso di studio che ho visto molto da vicino.
Siamo a Londra, a metà dell’800, in piena epoca vittoriana. La città è in fermento: sono ancora vivi il ricordo e la spinta motrice della prima Expo internazionale del 1851 quando la città è stata teatro delle dimostrazioni delle meraviglie della scienza e della tecnica provenienti da tutto il mondo. Oggi diremmo che la metropoli è il centro dell’ecosistema tecnologico contemporaneo, dove avvengono scambi di idee e di competenze.
A quell’epoca però è sotto gli occhi di tutti una profonda contraddizione: l’arteria fluviale cuore della città, il Tamigi, è una fogna a cielo aperto. Tutti i liquami – umani e industriali – vengono gettati nel fiume e sono frequenti focolai di colera e febbre tifoide. Un problema enorme, manifesto e dichiarato, che però sembra inaffrontabile, un dato di fatto. Sembra una questione non risolvibile singolarmente, sembra che debba sempre, per forza, essere affrontata da qualcun altro (vi ricorda qualcosa?).
Ecco che però, nel 1858, accade qualcosa: durante l’estate, particolarmente calda, per tutta la città, in ogni angolo, in ogni cucina, in ogni sala da ballo si diffonde una puzza insopportabile: The Great Stink – il Grande Fetore – lo chiameranno. Le persone, tutte, non riescono a pensare ad altro, e proprio quell’anno si trovano i fondi e si decide di avviare i lavori per quello che diventerà il più innovativo sistema fognario d’Europa.
Ora: ma non potevano pensarci prima? Bè, sì, ma dobbiamo fare la pace con noi stessi, siamo esseri umani e facciamo una fatica immane ad affrontare problemi grandi con anticipo. Siamo guidati dall’emergenza, da una spinta creativa che si esprime al meglio solo se il problema è contingente, vicino. È proprio da questa storia che parte il mio ragionamento.
Così come per fare un fuoco abbiamo bisogno di combustibile (la legna), comburente (l’ossigeno) e innesco (la scintilla), allo stesso modo, per fare innovazione abbiamo bisogno di un problema intangibile (come la gestione dei liquami nel Tamigi), di un ecosistema tecnologico (Expo) e di un’emergenza (il Grande Fetore). È stato così per l’innovazione fognaria di Londra, ma le dimostrazioni sono sotto gli occhi di tutti continuamente. Si pensi a cosa è avvenuto da poco: da sempre sapevamo che avremmo dovuto affrontare prima o poi una nuova pandemia globale, l’ecosistema tecnologico si stava attrezzando con laboratori di ricerca sempre più avanzati, ma abbiamo dovuto confrontarci con l’emergenza Covid per vedere l’arrivo sul mercato dei primi vaccini a Rna efficaci.
Bene, la sfida della sostenibilità che ci apprestiamo ad affrontare è forse la più grande di sempre: tanto grande da essere molto difficile immaginare come maneggiarla. Io per prima quando penso a che cosa potrei fare per poter contribuire, penso di poter fare ben poco. Certo, faccio la raccolta differenziata, tengo il riscaldamento basso, compro solo frutta di stagione, ma risolve davvero il problema (dai, ammettetelo, non ve lo siete mai chiesti anche voi)? Allo stesso tempo so anche che abbiamo a disposizione l’ecosistema tecnologico più straordinario di sempre: gli avanzamenti delle tecnologie abilitanti proprie dell’Industry 4.0 ci permettono di immaginare soluzioni innovative come mai prima.
Ma per trovare soluzioni a un problema così grande, dovremo per forza aspettare una emergenza catastrofica? Probabilmente sì.
Lo dico con rammarico, ma ho paura che inevitabilmente la strada sarà quella.
Ma allora dobbiamo darci per vinti? Ecco, io non credo proprio.
Anzi: credo ci siano tutti i presupposti per fare bene e per fare innovazione sapendo, in maniera onesta e consapevole, che per farla abbiamo bisogno di uno stimolo concreto, più vicino a noi.
Sappiamo quindi di aver bisogno di risolvere il grande problema del riscaldamento globale, ma lo sapremo fare solo se, per esempio, sapremo trovare un modo per vendere prodotti riciclati a prezzi competitivi grazie a un efficiente sistema di raccolta basato su intelligenza artificiale, o per ridurre il consumo di acqua senza compromettere i raccolti grazie a sensori nei campi coltivati capaci di monitorare il terreno e di inviare i dati a grande distanza.
Rispondendo a quel piccolo stimolo – piccolo relativamente al problema generale, ma grande per noi – saremo in grado di avvicinarci di un piccolo passo alla soluzione delle sfide che ci impone oggi il pianeta. E sappiamo benissimo che per scalare una montagna dobbiamo fare un passo dopo l’altro dove ognuno è importante.
A TheFabLab siamo abituati a collaborare con aziende di diversi settori e buona parte del nostro impegno si concentra nell’individuazione dei bisogni del cliente, nell’analisi del contesto, nello scouting tecnologico e, infine, nell’individuazione di una soluzione. Questo processo, apparentemente molto lineare e piuttosto diffuso, cela in realtà – se fatto bene – la vera linfa vitale utile a generare innovazione e mi sono accorta che, risolvendo bisogni delle aziende, abbiamo contribuito a fare quei passi nella direzione della sostenibilità che ci permettono di sperare in un futuro più luminoso.
Vi presento un esempio, tanto semplice quanto significativo.
Come sappiamo le emissioni e gli scarti dovuti alla produzione, al trasporto e alla gestione dei beni, lungo tutta la catena del valore, rappresentano uno dei grandi temi da affrontare se ci vogliamo occupare di sostenibilità. Una corrente di pensiero diffusa tra i fablab sostiene la necessità di dover abbandonare il modello tradizionale secondo cui le risorse vengono estratte e trasportate nei luoghi di produzione dei beni e poi di nuovo trasportati dove i beni vengono fruiti per poi diventare rifiuti (modello PITO: Product In – Trash Out).
Il nuovo modello proposto prevede invece che dovrebbero essere i dati l’unica cosa a spostarsi (modello DIDO: Data In – Data Out), mentre tutta la materia – in tutto il suo ciclo di vita – dovrebbe rientrare in una economia circolare più ristretta che ruoti intorno a distretti urbani. In poche parole: non c’è bisogno di trasportare i prodotti, è sufficiente spedire il modello 3D in digitale dove quel prodotto serve e verrà utilizzato. C’è un bel video di qualche anno fa che ben rappresenta questo tipo di approccio, ecco il link: full printed.
Questo modo di produrre naturalmente garantirebbe ingenti risparmi in termini di emissioni e di scarti, ma rimane un modello e per quanto affascinante mi lascia quella brutta sensazione di non saper da che parte cominciare per applicarlo. Non solo: mentre io e i miei colleghi lo studiavamo, ci siamo resi conto di un forte limite rappresentato dal fatto che, se sono i file dei modelli a viaggiare, chi e come si garantisce la proprietà del modello e quindi il relativo guadagno?
Senza rispondere a queste domande, nessuna azienda applicherebbe il modello. Qualcosa del genere se lo sono chiesti gli artisti e i produttori musicali durante la crisi dell’industria musicale avviata ai tempi di Napster.
Quando abbiamo iniziato ad affrontare questo problema le stampanti 3D erano raramente connesse alla rete e ancora nessuno parlava di blockchain, ma l’ecosistema tecnologico fatto di oggetti connessi alla rete (l’Internet of Things), di fabbricazione digitale (stampa 3D) e di nuove chiavi di criptazione permettevano di immaginare nuove soluzioni.
Abbiamo quindi sviluppato un protocollo che permette di criptare i file per la stampa e di garantire la loro eliminazione una volta avviato e concluso con successo il processo di stampa. Semplificando: chi compra un file digitale per la stampa 3D potrà stampare quel progetto una e una sola volta perché il file non è duplicabile.
In questo modo le revenue sono garantite, il trasporto dei beni finiti non è più necessario e si può anche produrre solo quello di cui c’è davvero bisogno, avviando quella che viene definita produzione Just in Time o a richiesta riducendo o addirittura eliminando lo stoccaggio.
Questa innovazione ha riscosso l’interesse soprattutto delle industrie manifatturiere che si vedono costrette a produrre enormi quantità di pezzi di ricambio che non sempre vengono utilizzati e che devono essere disponibili per tutti i mercati dove i prodotti vengono distribuiti. Siamo ancora in fase di sviluppo e sperimentazione di questa soluzione, ma risponde a un problema concreto, facilmente identificabile, vicino al mercato e relativamente semplice. Eppure, se applicata su larga scala, la soluzione si porterebbe dietro enormi benefici in termini di sostenibilità. Esattamente come la rete fognaria di Londra ha risolto il problema delle epidemie.
Quella che vi ho descritto è una innovazione di prodotto e di processo – dipende dall’angolazione con cui la si guarda – ma esistono esempi interessantissimi legati a innovazione di competenze e di modello di business che seguono la stessa logica.
Che cosa significa innovazione di competenze all’epoca dell’Industria 4.0? Credo che la risposta risieda nell’opportunità offerta dal design e da tutte le metodologie che si sono sviluppate intorno ad esso. Purtroppo in Italia siamo abituati a pensare al Design solo relativamente all’interior design, ma il ruolo del designer è molto più ampio ed applicabile ad una infinità di settori. Per questo motivo ritengo importantissimo abituarci ad usare più spesso la definizione di progettista, cioè la persona capace, all’interno di un’organizzazione, di immaginare e gestire lo sviluppo di un prodotto o di un servizio sotto ogni punto di vista e lungo tutta la catena del valore.
Viviamo in un’epoca in cui non solo abbiamo l’opportunità di esprimere la parte più creativa e intellettuale di noi esseri umani, ma è sempre più una necessità: algoritmi di intelligenza artificiale e robot saranno capaci di sostituirci egregiamente nello svolgimento di compiti ripetitivi o in cui è necessaria ampia capacità di calcolo. Dobbiamo investire allora nelle nostre abilità più strategiche che ci permettono di affrontare la complessità e l’imprevedibilità. Esattamente quelle skill che ci caratterizzano come esseri umani e dove risiederà il vero valore delle attività che svolgeremo nel prossimo futuro. Per questo saremo costretti a formarci con un approccio post-disciplinare (che va quindi oltre le distinzioni rigide dei ruoli), ricorrendo al e puntando sul design thinking e su tutte quelle metodologie che fanno emergere qualità uniche e insostituibili. Solo così potremo innovare le nostre competenze e proprio per questo a TheFabLab abbiamo sviluppato il metodo Innovation by Doing per formarsi e progettare soluzioni guardando a tre dimensioni fondamentali: tecnologia, business e cultura.
In conclusione: se vogliamo – e vogliamo – affrontare le sfide della sostenibilità dobbiamo imparare ad alzare lo sguardo e guardare lontano, ma è necessario talvolta stringere lo zoom intorno a problemi più concreti, che ci permettono di far luce sulle priorità, di spingerci verso soluzioni tangibili e facilmente applicabili a testa bassa, in modo serio e consapevole, senza rischiare di trovarci bloccati di fronte a un problema troppo grande per essere risolto. Un passo alla volta.