Legal impact: il ruolo dei legali per una strategia di sostenibilità vincente e in linea con un quadro normativo in costante evoluzione

Tra le tantissime notizie e novità che negli ultimi anni hanno contribuito a far crescere, anche in Italia, l’attenzione verso i temi della sostenibilità aziendale, ce ne sono due particolarmente significative e utili a comprenderne i profili giuridici e a far emergere la centralità del legal impact

La prima riguarda l’ordinanza cautelare del 25/11/2021 con cui il Tribunale di Gorizia ha accolto il ricorso d’urgenza presentato da una nota azienda del comparto tessile nei confronti di una società concorrente la cui strategia di comunicazione, finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, è stata riconosciuta e definita, per la prima volta, come “green-washing”. Si è trattato di una pronuncia molto significativa non solo in ambito pubblicitario, ma anche nel contesto più esteso della c.d. “ESG litigation” intesa come il ricorso ad azioni legali laddove, ad una sostenibilità dichiarata e ostentata da parte delle imprese, non corrispondano effettivi impegni in tal senso né tanto meno riscontri oggettivi che ne confermino la veridicità.

La seconda riguarda invece il noto marchio statunitense Patagonia. Quando, a settembre di quest’anno, Patagonia ha comunicato che il pianeta Terra sarebbe diventato il proprio unico azionista (“Earth is now our only sharehoder”), in molti hanno pensato ad un’iniziativa pubblicitaria. Nella realtà, Patagonia ha ceduto, attraverso un’operazione societaria, la totalità delle proprie azioni con diritto di voto al Patagonia Purpose Trust, costituito appositamente per garantire e tutelare il perseguimento dei valori aziendali, mentre la totalità delle azioni senza diritto di voto sono state cedute alla Holdfast Collective, organizzazione non profit costituita per realizzare iniziative di contrasto al cambiamento climatico e di tutela della natura. A seguito di questa operazione, i profitti di Patagonia, una volta reinvestiti internamente, verranno quindi ridistribuiti sotto forma di dividendi e contribuiranno alla lotta contro la crisi climatica ed alla tutela dell’ambiente globale. 

Si tratta di due episodi che, seppure diversissimi per contesto geografico, rilevanza mediatica e profili giuridici, ben rappresentano gli antipodi di ciò che la sostenibilità aziendale può significare a livello di scelte giuridiche e possibili conseguenze legali. 

Da un lato infatti, l’operazione societaria di Patagonia corona, attraverso una cessione di azioni, lo sviluppo di una consolidata strategia aziendale che ha portato alle estreme conseguenze il proprio processo di transizione da una forma di capitalismo incentrata sulla massimizzazione dei profitti per gli azionisti ad un modello generativo incentrato sugli stakeholders e sulla creazione di valore per il pianeta. 

Dall’altro l’ordinanza del Tribunale di Gorizia ha messo in luce, anche in Italia, i rischi legali di una sostenibilità di facciata, priva di riscontri oggettivi e di una vera strategia d’impresa. Rischi che in altre parti del mondo hanno già portato a inchieste, pronunce e sanzioni molto rilevanti per noti marchi e aziende multinazionali (si vedano i recenti casi di Decathlon e H&M in Olanda )

La genesi e la comprensione di questi due antipodi va ricercata nell’attuale momento storico in cui la sostenibilità aziendale è al centro di una stagione di grande clamore e fermento, sia nell’ambito dei mercati che sul fronte delle politiche e degli interventi normativi. Lo sviluppo di qualunque settore del mercato globale, quello finanziario in primis, non può più infatti prescindere da un sostanziale ripensamento in chiave sostenibile. A questa tendenza sta facendo eco, soprattutto in ambito comunitario, una proliferazione normativa senza precedenti attraverso cui, dal 2014 ad oggi, si è cercato di coinvolgere le imprese, oltre che gli Stati ed i singoli cittadini, nel perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGS) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, degli obiettivi sanciti dall’Accordo di Parigi sul clima e nell’implementazione delle azioni individuate con l’EU Green Deal. 

Si tratta di un processo evolutivo e trasformativo molto più recente e rapido rispetto a tanti altri settori del diritto. Forte di una solida base di strumenti giuridici non vincolanti (cosiddetti di “soft law”) che hanno contribuito a delinearne i principi e le possibili modalità applicative, solo nell’ultimo decennio la sostenibilità ha trovato declinazione e cogenza all’interno di norme vincolanti (cosiddette di “hard law”) per gli Stati e per le imprese. 

Basti pensare che la prima cristallizzazione formale del concetto di sviluppo sostenibile (“lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”), confluita poi nel Principio 3 della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo del 1992, risale al rapporto “Bruntland” del 1987 (rapporto “Our Common Future” a firma dell’allora presidente della World Commission on Environment and Development, Gro Harlem Brundtland). Se si è dovuto attendere i primi anni ’90 per veder riconosciuto il concetto di sviluppo sostenibile all’interno di una dichiarazione internazionale, per altro non vincolante, non stupirà il fatto che solo a luglio del 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha finalmente riconosciuto l’ambiente pulito, sano e sostenibile come un diritto umano universale. 

È evidente come l’attuale diffusione dei temi della sostenibilità spesso non poggi su basi sufficientemente solide a livello definitorio e che, in assenza di un quadro chiaro e preciso, uno dei rischi principali del momento sia proprio quello di non riuscire a colmare la distanza tra gli antipodi dei due episodi iniziali (l’attivismo imprenditoriale e la sostenibilità da slogan), ma di incrementarla. La Dichiarazione di Rio parlava di sviluppo sostenibile a tutela dei bisogni delle generazioni future, senza distinguere i profili ambientali da quelli sociali, la tutela degli ecosistemi e della biodiversità dal rispetto dei diritti umani ed il contrasto alle disuguaglianze sociali, ma ricomprendendoli in una nozione trasversale e olistica di sostenibilità. La percezione e le trasposizioni normative degli anni successivi hanno però seguito una logica più settoriale che ha portato ad una grande enfatizzazione dei profili ambientali della sostenibilità e quindi della “E” dell’acronimo ESG e che soltanto negli ultimi anni sta evolvendo verso un concetto, anche giuridico, che coniughi la tutela dell’ambiente con il rispetto dei diritti umani attraverso strumenti di governance e modelli di business costruiti per perseguirli. L’art. 3 del Regolamento 2020/852/UE, il cosiddetto Regolamento “Tassonomia”, emanato a beneficio degli attori del mercato finanziario già destinatari degli obblighi previsti dal Regolamento 2019/2088 “relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari” (c.d. Regolamento SFDR”), sancisce per la prima volta che un’attività economica ecosostenibile, per poter essere definita tale, deve: 

  • contribuire in modo sostanziale al raggiungimento di uno o più obiettivi ambientali specifici (tra quelli elencati all’articolo 9); 
  • non arrecare un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali previsti dal Regolamento;
  • rispettare le garanzie minime di tutela dei diritti umani già sancite da importanti strumenti di soft law in materia di impresa e diritti umani e, in particolare le Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani,  la Dichiarazione tripartita  principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro;

Il Regolamento Tassonomia ha quindi sancito, a beneficio degli attori del mercato finanziario (destinatari del Regolamento SFDR), ma anche di tutti gli altri attori del mercato europeo e globale, un principio di sostenibilità che non può prescindere dal rispetto dei diritti umani e che ritrova la trasversalità e la profondità della Dichiarazione di Rio applicandola a settori storicamente caratterizzati da checklist e auditing di compliance. 

Lo stesso percorso sta avvenendo anche rispetto ad altri risvolti della sostenibilità d’impresa. Dall’emanazione della Direttiva Europea 2014/95/UE (Non Financial Reporting, “NFDR”), recepita in Italia nel 2016 con il D.Lgs. 254/2016, all’attuale proposta di Direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence (“CSDD”), il quadro normativo e, con esso, l’ambito di applicazione, gli obblighi ed i profili definitori in materia di sostenibilità delle imprese sono infatti già cambiati moltissimo. Lo stesso approccio alla sostenibilità, sintetizzato e categorizzato asetticamente con l’acronimo ESG (Environment, Social, Governance), ha già visto succedersi numerosi sforzi interpretativi, non solo a livello definitorio: da un’applicazione tipicamente rendicontativa focalizzata su misure idonee a ridurre l’impatto ambientale e sociale delle imprese, tipico del Non Financial Reporting, ad un approccio più generativo incentrato sull’individuazione di obiettivi di impatto positivo misurabili oltre che sulla corretta gestione dei rischi di sostenibilità lungo tutta la catena del valore, che invece ritroviamo nelle recenti proposte di Direttiva su Corporate Sustainability Reporting (CSRD) e CSDD. 

All’interno di questo contesto normativo e dell’affannosa rincorsa agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico e alle altre epocali crisi socio-ambientali che il pianeta sta vivendo, il mercato italiano sta reagendo in maniera frenetica e disomogenea. Ad una cerchia ristretta di attori del settore finanziario e aziende di grandi o grandissime dimensioni già destinatarie di precisi obblighi sanciti dalla NFDR e dal SFDR fa da contraltare una vastissima platea di aziende (9 su 10 in Italia) che, in attesa di venire ricomprese nell’ambito di applicazione di norme vincolanti e cogenti, non ha sviluppato una propria strategia di impatto o una gestione basata volontariamente su criteri sostenibili (v. https://www.milanofinanza.it/news/fondi-pnrr-a-rischio-il-90-delle-aziende-italiane-non-e-in-linea-con-i-criteri-esg-202210121823234428 ). Questa carenza rischia di compromettere, in prima battuta, l’accesso ai tanto agognati fondi del PNRR per l’ottenimento e gestione dei quali sono espressamente richiesti alle aziende percorsi mirati e indicatori in materia di sostenibilità. Il rischio diventa però esponenziale se si considera che ciò che oggi non presenta per le aziende italiana profili di cogenza normativa diretta, possiede già le caratteristiche di una cogenza commerciale. In altre parole, ciò che non è imposto direttamente dal legislatore, rischia di venire imposto a livello contrattuale da clienti e partner commerciali già destinatari di obblighi di legge. Questo sarà ancor più evidente con l’emanazione dell’attuale proposta di Direttiva sulla CSDD: le aziende destinatarie avranno infatti l’obbligo di predisporre clausole contrattuali attraverso le quali responsabilizzare l’intera filiera verso l’individuazione di azioni concrete capaci di migliorare l’impatto generato verso ambiente e diritti umani. 

Appare però altrettanto evidente come ad alti profili di rischio corrispondano anche grandi opportunità per le aziende che sapranno far emergere prima e meglio, all’interno del proprio mercato di riferimento, una strategia di sostenibilità giuridicamente oltre che sostanzialmente solida. 

Per comprendere quindi il concetto e l’approccio del Legal impact occorre cambiare prospettiva rispetto al tipico ed univoco approccio giuridico. 

Si tratta infatti di un concetto che non riguarda solo l’interpretazione e applicazione delle norme vigenti in materia di sostenibilità e impatto e la valutazione di costi, benefici e rischi rispetto a obblighi e possibili sanzioni, ma che si confronta, piuttosto, con una triplice esigenza fondamentale:

  • Rispondere alle continue e crescenti sfide ambientali, sociali ed economiche che attraversano il nostro pianeta e contribuire fattivamente, anche ripensando ed innovando i propri modelli di business, all’inversione di tendenze e declini che appaiono inarrestabili;
  • Analizzare ed anticipare l’evolversi di un contesto normativo e di policy che, in ambito globale, comunitario e nazionale, sta delineando uno scenario di obiettivi, requisiti e impegni in materia di sostenibilità sempre più trasversali e stringenti.
  • Gestire rischi e opportunità del proprio mercato di riferimento superando la cortina della sostenibilità di “superficie” e attestandosi come attori realmente capaci di coniugare lo sviluppo economico e la crescita del proprio business con la generazione di un impatto positivo misurabile per la collettività. 

Legal impact significa quindi, per le aziende ma anche per chi le supporta, saper declinare una strategia di sostenibilità attraverso l’individuazione di obiettivi concreti e misurabili e la costruzione di un’infrastruttura giuridica capace di gestirne i rischi e di renderla pienamente credibile verso il mercato e la collettività. 

La coniugazione di questo principio varia a seconda delle caratteristiche dell’azienda e del mercato, oltre che dal quadro normativo, di riferimento. Quindi può, anzi deve essere interpretata in maniera flessibile variando, a seconda della strategia di sostenibilità che più si confà alle peculiarità dell’azienda e che meglio può contribuire al perseguimento di obiettivi di impatto concreti e misurabili. All’interno di tale flessibilità non esiste quindi un solo percorso di sostenibilità e legal impact da seguire. Le iniziative sono molteplici e possono essere sviluppate con tempi e modalità diverse: dalla costruzione di un proprio modello di sostenibilità e dall’implementazione di policy e procedure dedicate, all’adozione della qualifica di società Benefit, dall’avvio di un percorso di certificazione alla revisione del proprio modello di governance e delle regole di ingaggio e coinvolgimento dei propri partners e suppliers lungo tutta la catena del valore. 

Mai come in questo momento i profili giuridici e un approccio legale innovativo e trasversale alla sostenibilità sono stati così strategici e fondamentali per fare da raccordo tra le politiche internazionali, il contesto normativo, lo sviluppo delle imprese e il benessere dei cittadini.  



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