Dalla compliance all’impatto, a chi conviene?

Che in tema di rispetto dei diritti umani il quadro regolatorio per le aziende si faccia sempre più pressante è un dato di fatto.

 L’evoluzione di queste normative sposta sempre più sulle aziende l’onere di implementare presidi e misure per prevenire violazioni. Cosi le diverse funzioni aziendali si trovano a dover gestire ambiti di compliance con focus diversi: alcuni più legal, alcuni più finanziari, altri più rendicontativi e di relazioni con l’esterno. E la complessità aumenta con una difficile percezione dei benefici. È una somma di sforzi, piuttosto che una sinergia.

Proviamo a dare uno sguardo di insieme da un punto di vista più esterno, da parte di una organizzazione della società civile che queste evoluzioni le sta osservando dall’esterno ma in parte anche attivamente sostenendo, con la visione di incoraggiare uno sviluppo legislativo che sia funzionale al nostro obiettivo di promuovere una società più equa ed inclusiva. 

Per il settore privato è fondamentale garantire il rispetto dei diritti umani nello svolgere il proprio business, fino a qui nulla di nuovo. È una responsabilità questa ben ancorata nei principi di diritto internazionale, ma ecco, il business responsabile a cui vogliamo guardare va oltre il concetto di “non nuocere, non fare del male”. In questo contesto di crescente regolamentazione, bisogna considerare, da un lato, che gli standard normativi non garantiscono lo stesso livello di protezione dei diritti umani in egual misura nei diversi contesti geografici in cui le catene di fornitura sono localizzate e, dall’altro, il ruolo fondamentale che invece standard internazionali possono svolgere al fine di stabilire un più alto e omogeneo livello di protezione dei diritti umani.

Fino a poco tempo fa il riferimento normativo internazionale in tema di responsabilità era rappresentato dai Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite (UNGP) e dalle Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali. Linee guida di natura solamente volontaria (soft law) che però, nell’economia della compliance aziendale si sommano a obblighi più puntuali, come sul tema della responsabilità con la 231/01, o di reporting con il D. Lgs. 254/2016, o il più recente Regolamento Tassonomia e ESG. 

E adesso con la risoluzione del Parlamento Europeo del 10 marzo 2021, adottata dalla Commissione a febbraio 2022, si va verso una normativa obbligatoria, seppur per alcune categorie di aziende in tema di due diligence dei diritti umani che trasforma (pur con vari limiti) in dovere ciò che prima era volontario. 

In generale questa evoluzione va verso un cambio di paradigma: mette al centro l’“ecosistema azienda” e il suo comportamento, promuovendo un processo continuo di “analisi-valutazione-azione-mitigazione” come base per la conformità alla normativa, e non un risultato assoluto raggiunto (una certificazione per esempio). 

Va verso un allargamento del campo di analisi e applicazione. Non più solo la propria azienda e i propri processi ma l’intera catena del valore, fino all’ultima relazione commerciale pur indiretta.

Si introduce la dimensione del potenziale impatto arrivando a introdurre il concetto di prioritizzazione dell’intervento in base alla gravità, all’urgenza, alla probabilità, e di mitigazione, nemmeno di risoluzione totale. 

Nella social Taxonomy, per come ad oggi si presenta, si arriva al concetto di co-creazione del valore sociale, andando a valutare quanto le aziende contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi, anche indirettamente. Mentre gli investitori tipicamente si concentrano sui rischi materiali, su quelli che hanno un potenziale impatto sulle performance finanziarie dell’azienda, adesso i regolatori spingono anche sull’importanza degli impatti qualitativi diretti e indiretti sulla società.

Ecco, osservando tutto questo con una logica intenzionale di insieme, non si può non notare quanto diventi cruciale per le aziende la capacità di ascolto, di lettura dell’ambiente esterno, di valutazione, di discernimento. 

È evidente quanto tutto questo si allontani da un esercizio metodico di tick-boxing di alcune funzioni, per arrivare invece a disegnare un approccio complessivo che diventa identitario delle scelte e degli atteggiamenti, elementi distintivi che permeano tutti i ruoli e le funzioni, a partire dalla proprietà, dal vertice che crea una visione. 

La sostenibilità smette di essere un concetto legato ad un singolo prodotto (può un singolo prodotto, una collezione essere “sostenibile” all’interno di un ecosistema produttivo che non lo è?) ma diventa dell’azienda, del modello di business dell’azienda stessa con le sue decisioni che danno forma ad una struttura organizzativa con una governance che rispecchia queste scelte, delle policy, che verranno atterrate con coerenza in operatività e processi produttivi che danno forma a prodotti o servizi. 

Il tutto coinvolgendo e interagendo intenzionalmente con altri soggetti che non sono solo portatori di interesse, ma anche detentori di diritti e di doveri (duty-bearer) e contribuendo così a creare valore in ogni singolo passaggio della catena produttiva.

L’azienda e le sue scelte in questo modo creano valore perché lasciano il segno, modificano la situazione di partenza apportando risorse economiche (salari giusti), promuovendo inclusione (di genere, di cultura, di abilità fisiche, di età, di background sociale ed etnico), investendo in welfare comunitario e di territorio, favorendo l’accesso al credito di piccoli fornitori (con regole di procurement chiare, stabili, finanziariamente rispettose di tempi e scadenze), partecipando ad azioni di “collective leverage” con i propri pari di settore per ingaggiare le istituzioni e i governi locali nel miglioramento di policy, promuovendo l’innovazione pre-competitiva, contribuendo con la propria comunicazione a contrastare norme sociali pericolose e promuove modelli positivi…

E cosa è tutto questo se non impatto? 

Tutto questo, pur partendo da una compliance aziendale, per chi lo vuole cogliere, porta tante opportunità. Per saperlo e poterlo fare dobbiamo metterci nelle condizioni e fornirsi di strumenti per leggere una nuova realtà, dove il minimo sforzo non è più accettabile, il requisito minimo per legge, non è più sufficiente. 

È su questo scarto che si gioca la partita dell’impatto. Sulla differenza tra “quello che faccio perché devo” e “quello che scelgo di fare perché è giusto”: in gioco non c’è più il rispetto della compliance ma l’evoluzione dei diritti, il miglioramento delle condizioni di vita, l’accesso alle risorse per tutti. 

E non si tratta per l’azienda di dover avere una specifica agenda sociale, o un approccio particolarmente virtuoso, ma di fare i conti con ciò che è conveniente fare, aumentare le capacità dell’organizzazione stessa di agire in modo conforme nonché di portare avanti una visione integrata del rischio con evidenti sinergie interne in tema di risorse, costi e investimenti e relazioni reciprocamente vantaggiose con un ecosistema più ampio, da cui la stessa salute del business dipende. Insomma conviene a tutti

Questo passaggio è scomodo e non immediato, mette in moto meccanismi che toccano il cuore della cultura organizzativa e obbligano al confronto con nuovi soggetti o modi nuovi di guardare agli stessi interlocutori. Sono cambiamenti che richiedono tempo e possibilmente anche nuovi partner che diano supporto con competenze e strumenti specifici.  

In questo la società civile può e deve avere un ruolo di promotore di buone pratiche e strumenti adeguati. Con una posizione privilegiata di mediatore tra diversi parti (privato, pubblico, sociale) e con la responsabilità di mettere sul tavolo di lavoro temi e voci che finora non hanno goduto di grande attenzione. 

Guardando a questo necessario ed auspicato salto di approccio dalla pura conformità alle norme in modalità reattiva, alla promozione in azienda di un approccio più proattivo e valoriale, guadiamo alla figura del legal come un mediatore culturale interno all’azienda, che con le dovute competenze si faccia attivatore di processi virtuosi e promotore di visioni più strategiche e di impatto, garantendo un impianto organizzativo al livello di tali ambizioni.