Come leggere e cosa ci raccontano i numeri degli investimenti ad impatto

A che punto siamo, opportunità e difficoltà

Nel quadriennio 2017-2020, in Italia sono stati 109 i milioni di euro di capitale disponibile per investimenti “strictly impact”, realizzati cioè applicando i principi di intenzionalità, misurabilità e addizionalità nel loro processo di impiego di capitali. Il 137 per cento in più rispetto ai quattro anni precedenti in cui la cifra si attestava sui 46 milioni.

Sono i dati raccolti e divulgati a maggio 2021 dall’Impact Investing Report della Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore (FSVGDA), un documento che prova a fotografare la crescita del numero di investimenti impact degli ultimi anni nel nostro paese.

Nel 2017 infatti il capitale disponibile per investimenti nel settore era di 46 milioni, con 9 investimenti realmente effettuati e 6.5 milioni investiti, nel 2018 i milioni disponibili erano 61,5 milioni, 31 gli investimenti fatti e 14 i milioni utilizzati. Nel 2019 le cifre sono ulteriormente cresciute, con 68 milioni di euro disponibili per investimenti impact, 21 investimenti e 8 milioni investiti. Fino al 2020 con la crescita a 109 milioni di capitale disponibile, 39 investimenti effettuati e 13 milioni di capitale investito nell’anno.

A questo si aggiungono, o meglio, si dovrebbero aggiungere, i fondi del PNRR. Ma nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, come evidenziato in un articolo di Vita No Profit, compare una sola volta il termine “innovazione sociale” o “co-progettazione”, non si leggono mai le parole “non profit”, “economia sociale” o “cooperative”. “Impatto” invece ricorre 130 volte, ma mai associato all’idea che le logiche di misurazione del ritorno finanziario possano dipendere anche dai risultati sociali e ambientali.

Come ha sottolineato Mario Calderini, professore ordinario del Politecnico di Milano e scientific advisor del Campus, nel corso dell’evento del 25 maggio “A New Impact Era: from strategy to measurement” però queste tematiche e la loro correlazione dovrebbero essere assodate:

«non è più tempo dell’advocacy su questi temi. Siamo nel bel mezzo di un’enorme trasformazione e produrre e misurare l’impatto sociale e ambientale è importante per interpretare al meglio il momento storico che stiamo vivendo ed essere competitivi. Un cambiamento evidente per tutti e che vale in tutti i settori, compreso quello delle imprese».

A livello mondiale la crescita del mercato dell’impatto è confermata anche dall’Impact Investor Survey 2020 pubblicato dal Global Impact Investing Network (GIIN) che ha stimato circa 715 miliardi di dollari destinati alla finanza ad impatto. In un altro articolo pubblicato su Vita No Profit nel 2021, Giovanna Melandri, presidente di Social Impact Agenda per l’Italia (che riunisce investitori, imprese sociali, market builder e istituzioni filantropiche per realizzare una nuova economia in grado di combinare sostenibilità economica e impatto sociale e ambientale positivo) segnalava che il numero di Social Impact Bonds attivati nel mondo sono in tutto 194. L’Impact Bond Dataset aggiornato ne segnala ad oggi 250, principalmente nel Regno Unito (89), Stati Uniti (27), Portogallo (23), Paesi Bassi (17), Australia (14), Francia (10).

E in Italia? Nessuno.

E resta valido il commento fatto da Melandri nell’articolo del 2021: «Ma anche in Italia bisogna osare. È arrivato il tempo di riscrivere i meccanismi della finanza pubblica e consentire agli investitori privati di affiancare lo stato nell’attuazione delle politiche. Bisogna aprire le porte ad una presa pubblica “evidence based” e scommettere sulla misurazione dei risultati, senza paura. Bisogna rompere gli indugi, strutturare una cabina di regia che lavori sulla “missione impact” e non perdere più un solo minuto per lanciare l’ecosistema impact anche nel nostro Paese». Questo scriveva Melandri nel 2021, questo ha ribadito nel corso del GSG Leadership Meeting tenutosi a maggio 2022 a Torino e da qui dobbiamo partire.

Secondo i dati del XV Osservatorio Isnet, l’annuale istantanea sull’andamento economico, occupazionale e la capacità innovativa dell’impresa ad impatto sociale realizzato dall’Associazione Isnet con il patrocinio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e pubblicato a dicembre 2021, in Italia sono oltre 15 mila le cooperative sociali e i consorzi, 2065 le imprese sociali, 123 le B Corp e 926 le Società Benefit per un settore in crescita sia per volume dell’entrate (+ 4.7 per cento) che per posti di lavoro (+ 5,5 per cento). Un settore, inoltre, particolarmente capace anche di innovarsi con un 26,5 per cento di imprese che stanno utilizzando nuove soluzioni o hanno avviato nuove sperimentazioni.

D’altra parte, l’obiettivo del impact investing è far leva sull’imprenditorialità e l’innovazione perseguendo il fine di sostenere il progresso sociale e introducendo una terza dimensione, l’impatto, alle tradizionali priorità dei mercati di capitali, ovvero il rischio e il rendimento. 

Il punto è: come farlo?

A dicembre la Impact Task Force, creata a luglio 2021 e coordinata dal The Global Steering Group for Impact Investment (GSG), ha presentato al G7 un documento per promuovere l’impact investing a livello globale con alcune raccomandazioni:

  • esortare i governi a creare standard di divulgazione obbligatori e armonizzati per le aziende e gli investitori;
  • raccomandare alle grandi imprese di usare la loro esperienza per guidare le PMI a una pianificazione di lungo periodo nell’ambito della sostenibilità;
  • chiedere una cooperazione tra settore pubblico e privato per far progredire il lavoro sulla valutazione d’impatto e tutelarne l’integrità;
  • promuovere la diffusione di strumenti finanziari in grado di attrarre capitali privati verso investimenti volti al raggiungimento degli SDGs;
  • individuare tre elementi essenziali per realizzare una transizione giusta: promuovere l’azione climatica e ambientale, rendere più equa la distribuzione delle risorse economiche e coinvolgere maggiormente la comunità;
  • chiedere di attribuire un ruolo maggiore alle banche di sviluppo multilaterali e alle istituzioni finanziarie di sviluppo, per una loro maggiore efficacia nel sostenere la mobilitazione degli investimenti privati;
  • invitare il G7 a guidare questi sforzi, affinché tutti gli attori del sistema finanziario collaborino e lavorino insieme per obiettivi condivisi. 

Il 9 dicembre 2021 inoltre la Commissione Europea ha lanciato il Social Economy Action Plan, che mette l’economia sociale al centro di un nuovo modello di Europa sociale e produttiva per il prossimo decennio. Le organizzazioni che fanno parte dell’economia sociale sono quelle che fanno prevalere il proposito sociale sul profitto e il reinvestimento degli utili o parte di essi in attività di interesse collettivo.

Come scritto dal professor Calderini in un articolo per Repubblica:

«La Commissione riconosce il ruolo decisivo dell’imprenditorialità sociale nel rendere più giusta, equa e inclusiva la transizione verde e la lotta al cambiamento climatico. In secondo luogo, l’economia sociale e il terzo settore vengono identificati come elementi costitutivi delle politiche industriali e dell’innovazione e non solo delle politiche sociali. In terzo luogo, la Commissione attribuisce all’imprenditorialità orientata all’impatto sociale un ruolo decisivo nelle politiche di coesione e nella riduzione di quelle diseguaglianze territoriali su cui decenni di fondi strutturali hanno inciso pochissimo». 

In Europa, per Calderini, c’è quindi stato un salto di qualità nella percezione politica del ruolo dell’economia sociale e delle sue capacità di diventare motore di crescita per un nuovo modello di welfare trasformato. E in Italia? «Questa accelerazione politica dovrebbe suggerire ai politici e economisti del nostro paese di riaggiornare la loro visione del terzo settore e soprattutto di quell’effervescente spazio ibrido che sta tra il terzo settore e il profit.

Dopo la fiammella di speranza che si è accesa con la decisione di conferire le deleghe dell’economia sociale al MEF e non al Ministero del Lavoro, si è per ora rimasti a una visione novecentesca e ideologica del ruolo del terzo settore, soprattutto nel PNRR dove lo stesso terzo settore è poco più che accessorio e l’economia sociale non pervenuta. E infatti, tra i molti pregi del PNRR non c’è purtroppo quello dell’empatia e di una visione moderna di inclusione.

Potrebbe forse aiutare una rilettura della lezione di Karl Polanyi, che ottant’anni fa, prefigurando una terza via tra Stato e Mercato basata sui valori della cooperazione, del mutualismo, della reciprocità e del dono, in tutto precorreva quanto la Commissione Europea sta cercando di fare oggi».