Non c’è impatto, senza comunicazione

Viviamo in un tempo di parole mescolate.

È sotto gli occhi di tutti quanto alcuni termini che un tempo definivano il campo del welfare oggi sono entrati nel vocabolario mainstreaming.
Non si tratta di un fenomeno neutro. Occorre essere consapevoli dei meccanismi attuali della comunicazione.

Vladimir Volkoff già negli anni Ottanta del secolo scorso invitava a indagare il meccanismo del montaggio: non più verità o falsità, non più fatti e interpretazioni contrapposti in forma e modi lineari, ma un mix potenzialmente eversivo di vero o falso. Di verità falsificate, di verità paradossalmente verificabili: il verosimile.vitae.

Avere presente questa nuova condizione, che qualcuno si è spinto a definire “post verità”, è imprescindibile. Per il linguista Marco Biffi «la rete ha senza dubbio delineato i connotati fondamentali di questa dimensione oltre la verità. “Oltre” è il significato che qui sembra assumere il prefisso “post” (invece del consueto “dopo”): si tratta cioè di un “dopo la verità” che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza. E, analizzando le modalità in cui il superamento si concretizza di volta in volta, colpisce la vocazione profetica che la parola nasconde tra le sue lettere: la post-verità, infatti, spesso finisce per scivolare nella verità dei post (come è successo spesso sulla rete proprio in relazione alle campagne politiche legate alla Brexit o alle elezioni americane)». 

«L’efficacia delle fake news è dovuta alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili», ha rimarcato Papa Francesco in occasione della 52esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. Plausibilità e verosimiglianza, dunque. 

La mescolanza dei linguaggi va di pari passo con la tendenza della comunicazione corporate ormai largamente maggioritaria di raccontare la propria visione del mondo, piuttosto che presentare al mercato un prodotto. Nel 2019 Philip Kotler ha introdotto il concetto di “Brand Activism”. Le aziende tendono con grande insistenza a raccontare non cosa producono e vendono, ma come la pensano sul mondo in modo da trasferire non il desiderio di prodotti, ma una sfera di valori dentro cui riconoscersi. 

Il dibattito su cosa sia l’impatto sociale e su come si valuti o misuri entra in un contesto comunicativo caratterizzato da questi due flussi.

Da una parte la nebulosità fra vero, verosimile e falso e dall’altra una comunicazione sociale che ha sconfinato le frontiere dell’attivismo civico e del mondo della solidarietà per diventare strumento appetibile e prezioso nelle mani di soggetti tipicamente market oriented. In un mondo ossessionato dalla ricerca di valori e di storie (“Tell me a story”, è diventata la parola d’ordine dei pubblicitari e comunicatori aziendali), l’impatto sociale rischia di trasformarsi nel passpartout buono per tutte le stagioni. Una sorta di Csr, col vestito nuovo. Se scattasse questo meccanismo di marketing, ipotesi non peregrina, l’impatto sociale finirebbe per divenire un termine vuoto e quindi nel lungo periodo muto, insignificante, ininfluente. Evitare questa deriva è compito dei soggetti sociali che anche dal punto di vista normativo (legge 328/2000, decreto ministeriale del 24 gennaio 2008 sui bilanci sociali, legge 106/2016 sulla riforma del Terzo settore con conseguente decreto sulle linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale)  sono quelli interessati a preservare l’identità del principio. 

Il capitale narrativo, insieme di parole, pratiche, storie, esperienze, è quanto di più prezioso un’organizzazione possieda. Perché non solo la definisce, ma anche la distingue da ciò che è altro. Narrare l’impatto sociale che si genera è quindi un atto prezioso, se non vitale per un’organizzazione sociale. Ma deve essere in grado di farlo avendo presente il contesto mediatico in cui opera. Raccontare in modo vago o in modo non continuativo la capacità di incidere in meglio nel contesto in cui si opera significa lasciare un’autostrada aperta a chi può mettere sul piatto risorse e  competenze pubblicitarie per creare in laboratorio la rappresentazione dell’impatto sociale che poi “venderà” sul mercato del verosimile. 

Come fare dunque?

Descrivere un intervento generativo di impatto sociale è un’operazione complessa. Primo: non è un’istantanea di un momento, ma la rappresentazione di un flusso di medio/lungo periodo, il tempo necessario per dare conto di un cambiamento generato non solo a vantaggio dei diretti beneficiari, ma di una comunità di impatto larga e composita. Secondo: la valutazione non è un mero esercizio accademico restringibile alla presentazione di un numero/moltiplicatore che rappresenti in termini “economici” la resa di un investimento a impatto. Valutare significa assumere una duplice responsabilità: in termini di affidabilità verso la comunità di riferimento e di credibilità e di coerenza valoriale verso l’interno dell’organizzazione. E qui veniamo al terzo punto: la valutazione di impatto, se comunicata, ovvero messa in comune, è uno straordinario strumento di empowerment a disposizione degli enti del Terzo settore (ma anche degli enti di altra natura con una reale vocazione sociale) per rafforzare la consapevolezza delle proprie risorse umane e ri/generare le motivazioni rispetto alla loro identità. 

In estrema sintesi: l’impatto sociale è inseparabile dalla sua narrazione.

Non accorgersene significa perdere la partita dell’impatto. E non cogliere un’occasione storica straordinaria per affermare la centralità del sociale nell’economia contemporanea.