L’impatto che genera profitto: una riflessione su metriche e obiettivi

Come valutare e misurare l’impatto è uno dei pilastri dell’attività dell’incubatore Impact Hub SB e dell’associazione internazionale di cui facciamo parte che conta oltre 100 spazi nel mondo nati dal basso, dall’interesse e dalla volontà di persone che, come me e come i miei colleghi, credono nel valore e nel potere trasformativo dell’impatto sociale.

Per una realtà come la nostra la valutazione ha un doppio livello: quello che prende in esame le startup che incubiamo e quello che rivolgiamo a noi stessi, all’analisi degli effetti e dei risultati del nostro brand, sia del singolo Hub che dell’associazione nel suo complesso. Il filo conduttore e il modello a cui guardiamo è quello della “Theory of Change”, ma stiamo riflettendo a livello globale su come valutare il nostro impatto generale. 

Negli anni siamo diventati B Corp e Società Benefit accogliendo e facendo nostri i parametri e gli obiettivi di valutazione, misurazione e miglioramento dell’impatto insiti in questo tipo di società e certificazione. I parametri delle B Corp infatti, vanno oltre la valutazione dell’impatto ambientale e sociale verso terzi, ma integrano anche valutazioni importanti quali il trattamento dei dipendenti, la forma di governance e numerosi aspetti di buona gestione interna.

Sono all’interno di Impact Hub dal 2012 e sono entrato come investitore dopo alcuni anni dalla fondazione. La visione che ho portato è stata pragmatica e ha influenzato l’approccio all’incubazione delle startup. Arrivo dal mondo profit e ho applicato il mio modo di vedere il business anche in questa avventura. 

Nella pratica per me ha significato lavorare al superamento del paradigma che ciò che fa impatto non genera profitto. Prima di tutto perché, dati alla mano, non è così.

Pensiamo alle attività nel campo della sostenibilità ambientale, terreno che ha ormai 30 anni di sperimentazione e crescita. È evidente che attuare delle scelte societarie e di produzione sostenibili può avere (o aver avuto) un costo e un investimento iniziale maggiore. Ma il ritorno in termini di risparmio e di riconoscibilità da parte dei clienti è altissimo. 

Oggi i consumatori sono più consapevoli ed esigenti e non scelgono solo il prodotto, ma i valori di un’azienda in cui si riconoscono e che saranno più portati a sostenere. Persone, per semplificare, che sono disposte a pagare di più per un oggetto o un servizio perché consapevoli delle attenzioni che stanno alla base della produzione o erogazione. Che si tratti di un minore inquinamento, di un processo produttivo completamente green e/o con energie rinnovabili, di selezione di materie prime sostenibili o di un basso impatto.

Quando si parla di sostenibilità ambientale non esiste più il concetto del trade off, cioè non si pensa che l’aumento di scelte sostenibili sia incompatibile con la crescita economica e di profitto. Purtroppo non è ancora così nel settore sociale in cui persiste la falsa credenza che se investo in un’attività ad impatto, come l’impiego di persone disabili, avrò un lavoro fatto meno bene, in più tempo e quindi meno redditizio.

La verità è che già esistono modelli di business ad impatto sociale elevato che producono molti utili. Ne sono un esempio i ragazzi con spettro autistico di tipo Asperger, ad alta funzionalità, che vengono impiegati nella programmazione e nel debugging (la ricerca e la correzione degli errori di funzionamento di un sistema o di un programma) per le loro grandissime capacità di concentrazione e analisi. Attività a loro congeniali, che sono bravi a svolgere e che li fanno sentire utili, accettati, integrati.

Mi rendo conto che ci siano ancora pochi esempi di questo genere, ma mi piace pensare che sia un trend in crescita e che avremo sempre più storie di questo tipo da raccontare e condividere. 

Quando in Impact Hub incubiamo una startup valutiamo il suo business model per capire quanto e come l’impatto, nelle sue diverse forme (sociale, ambientale, di governance) è integrato ed intenzionale. Questo non significa usare lo SROI (Social Return on Investment – Ritorno Sociale sull’Investimento) come parametro di valutazione, ma saper selezionare e indicare alcuni key point e obiettivi da raggiungere sulla base dell’impatto che quel progetto è capace di generare. ndo una funzione transazionale, di negoziazione. 

Infatti, se è vero che i “campioni” dell’impatto sociale ci sono, anche se non in grande numero, la vera sfida è come integrare e/o migliorare l’impatto sociale di aziende “normali”. 

Servono tante piccole ricette. Se la mia azienda produce sedie e mi preoccupo che la tintura non sia inquinante, se il produttore di mele non usa diserbanti nocivi per l’ambiente, se l’assicurazione impiega una categoria protetta per un certo tipo di suo servizio o impiego interno, allora tutte queste piccole cose insieme aiuteranno ad aumentare l’impatto. 

I grandi brand, a loro volta, non possono sempre rivoluzionare completamente una produzione, ma possono intervenire su problemi all’apparenza di poca importanza, che su grandi numeri producono risultati interessanti.

Ne è un esempio una grande società di produzione di bevande che anni fa ha deciso di ridurre le dimensioni dei tappi di plastica delle sue bottiglie. Sembra una cosa da poco, ma su milioni di pezzi, meno plastica è stata prodotta, lavorata e trasportata generando di conseguenza meno inquinamento.

È chiaro che per valutare queste azioni servono dei parametri di misurazione. Siamo in una fase di grande trasformazione, in cui l’attenzione per i criteri ESG è molto alta.

Vengono utilizzati come “etichetta” per cambiare nome e conferire un approccio sostenibile anche a cose che non lo sono. Penso ai fondi di investimento che improvvisamente sono stati legati agli ESG. Il mondo della finanza ha capito che tutto sta virando verso l’impatto e sta cercando di ritagliarsi una fetta in questo nuovo mercato. 

È un processo che ne sta snaturando il senso? In parte sì. Ma mi piace vedere l’aspetto positivo: l’attenzione è altissima, si parla molto di impatto e sostenibilità e queste tematiche sono nelle agende politiche e sui tavoli di tutti i CDA, dalle grandi alle piccole aziende.

Certo c’è molta difformità, anche lato certificazioni. Passano sotto il cappello dei criteri ESG azioni che non lo sono, o vengono certificate come realtà ad impatto a tutto tondo società molto ben posizionate e attente sotto il profilo della E (Environment), ma carenti in termini di S (Social) e G (Governance). O viceversa. 

Non possiamo negare che ci sia della speculazione, ma non è il momento di sistematizzare, rischiando di abbassare l’interesse. 

Il concetto dell’importanza della misurabilità sta finalmente passando a tutti i livelli. 

Nelle startup è chiaro da tempo, le realtà che incubiamo arrivano con la consapevolezza di voler risolvere un problema ambientale e/o sociale e sanno quanto è utile mostrare e raccontare i risultati. Certo servirebbero maggiori incentivi, ma dobbiamo impegnarci tutti insieme per continuare a tenere alta l’attenzione su questi temi anche nel mondo della finanza, delle grandi aziende, della politica in genere. 

Le nuove generazioni hanno una consapevolezza diversa: non vogliono solo fare business e profitto, ma impegnarsi in qualcosa in cui credono veramente. 

E che può fare del bene. Evidente e misurato.