Leggi la nostra intervista a Valeria Cavotta

Edoardo Fregonese, il nostro Educational Expert, ha intervistato Valeria Cavotta ricercatrice presso la Libera Università di Bolzano dove insegna imprenditorialità sociale e B2B marketing.

Edoardo Fregonese: Cos’è il system thinking? Qual è la sua storia e il suo posizionamento disciplinare?

Valeria Cavotta: Non c’è dubbio che il termine “sistema” sia diventato negli anni molto popolare in moltissime discipline, dalla cibernetica alle scienze sociali. In generale, si parla di sistema per identificare una serie di relazioni che rendono complesso il nostro vivere sociale e professionale, e per pensiero sistemico si intende il potenziamento della capacità di guardare ai problemi in modo olistico. Siamo ancora lontani dall’avere una coerenza inter e intra disciplinare di termini e approcci, ma in generale, il pensiero sistemico mira a rafforzare la nostra capacità di inquadrare i problemi sociali ed organizzativi, all’interno di un apparato più grande che pone limiti, certo, ma anche opportunità di azione.

EF: Quali sono le potenzialità del pensiero sistemico?

VC: Albert Einstein diceva che i problemi attuali non possono essere risolti con la stessa modalità di pensiero che esisteva nel momento in cui quei problemi sono iniziati.
Il pensiero sistemico fornisce una modalità diversa di pensare ai problemi esistenti, superando le lenti abituali, fatte di modelli mentali, assunzioni, credenze, che ci fanno vedere i problemi sempre nello stesso modo. Si tratta di un processo di scoperta che richiede tempo per dismettere quelle lenti e cominciare a guardare ai problemi in senso olistico. Questo può sembrare contro produttivo in una società che si muove molto velocemente e ci chiede soluzioni rapidissime ma che spesso si rivelano inefficaci. Accettando di prendersi il tempo per comprendere la complessità dei sistemi, il pensiero sistemico dovrebbe ridurre la tendenza di formulare delle soluzioni sbrigative che non solo non mitigano, ma potrebbero anche esacerbare il problema.

EF: E quale legame c’è, o può esserci, tra imprenditorialità sociale e pensiero sistemico?

VC: L’imprenditorialità sociale mira a mitigare o a risolvere problemi sociali, che per definizione, coinvolgono molteplici attori, ognuno portatore di visioni diverse, interessi, criticità, limiti, e potenzialità. Per questo motivo, i problemi sociali vengono considerati estremamente complessi, quasi cronici.
Un approccio sistemico ai problemi sociali, dal nostro punto di vista, non può che riconoscere – anziché sopprimere – questa intrinseca varietà di posizioni e di interpretazioni. Lungi dal mettere in atto una serie di interventi di causa ed effetto basati su una presunzione di maggiori conoscenze, il pensiero sistemico dovrebbe sollecitare gli imprenditori sociali a capire le specificità del contesto e ad immaginare interventi coerenti con le proprie capacità di apprendimento e con le capacità delle loro comunità di assimilare tali interventi.
In altri termini, se da un lato il pensiero sistemico mira a far comprendere la complessità dei sistemi sociali, dall’altro lato, immaginare impatti in larga scala potrebbe non essere una risposta efficace. Gli imprenditori sociali infatti possono fare molto, ma l’impatto sociale su larga scala non può essere atteso da un singolo individuo od organizzazione per via della natura dei problemi sociali a cui facevo riferimento prima. Quindi, attraverso una visione di sistema, gli imprenditori sociali possono esplorare interventi nuovi nella maggiore consapevolezza e conoscenza della complessità del sistema, e in questo modo, possono convogliare all’interno della propria organizzazione e agli stakeholders esterni un riconoscimento più giusto e realistico del valore dei propri interventi.

Leggi la nostra intervista a Alberto Robiati

Edoardo Fregonese, il nostro Educational Expert, ha intervistato Alberto Robiati consulente e formatore per lo sviluppo personale e professionale, esperto di creatività, innovazione e benessere organizzativo. Specializzato in Futures Thinking Strategic Foresight, metodi di visioning strategico ed esplorazione di scenari futuri.

Edoardo Fregonese: Dove si posizionano disciplinarmente i Futures Studies?

Alberto Robiati: forse è più definibile come una sorta di inter-disciplina, poiché sta al confine tra una serie di ambiti e a metà strada tra mondo accademico e applicazione sul campo, soprattutto il settore strategico. Possiamo dire che i domini principali sono quelli della sociologia, dell’economia, dell’urbanistica, dell’architettura e del design, ma molti studi e applicazioni rientrano nella cornice della psicologia, dell’antropologia o del mondo dell’arte. Inoltre da sempre anche la matematica e la statistica e oggi l’informatica forniscono basi teoriche indispensabili agli studi di futuro, nei quali tuttavia la componente quantitativa è meno decisiva rispetto a quella qualitativa.

EF: Quale “utilità” hanno?

AR: In questi tempi complessi, veloci e incerti, e in ogni periodo storico in cui la società è scossa da eventi e fenomeni dirompenti – la Seconda guerra mondiale, la crisi petrolifera, la Guerra fredda, il terrorismo, le tecnologie digitali, internet e così via –, abbiamo bisogno di nuovi modelli, nuovi strumenti, nuove mentalità che ci aiutino a leggere i mutamenti in atto in una prospettiva temporale di lungo periodo, ampliando gli orizzonti per cogliere aspetti che solitamente non rientrano nel nostro spettro ordinario. Gli studi di futuro sono una base necessaria oggi per interpretare i segnali trasformativi, anticipare i cambiamenti, migliorare la capacità strategica, attivare nuove competenze, come la resilienza, l’anticipazione, l’immaginazione, l’etica, la leadership orientata al futuro.

EF: In generale quindi gli Studi di futuro mirano a descrivere ciò che ci sarà o potrà esserci oppure hanno più carattere progettuale e mirano a costruire uno specifico futuro?

AR: Entrambe le cose. Da una parte vogliamo progettare mondi desiderabili e ci occupiamo quindi di generare le circostanze che li determinano. Cioè definisco un futuro preferito e lavoro per costruirlo: vado a vedere quali potrebbero essere le condizioni che mi permettono di realizzarlo e anche come gestire eventuali perturbazioni del sistema, come prepararmi in anticipo rispetto ai cambiamenti a livello macro (come i megatrends). Dall’altra miriamo a esplorare futuri possibili. Vale a dire che non sappiamo cosa succederà e dunque proviamo a studiare scenari alternativi. In nessun caso si può predire il futuro.

EF: Quindi rispondere alla domanda “What if”, in un certo senso.

AR: Anche, certo. Il “What if” è una delle tecniche che usiamo. Ovviamente bisogna lavorare attraverso metodologie molto rigorose che hanno una solidità scientifica. Per fare un esempio, tra gli strumenti previsionali più noti c’è il Delphi, che ha una storia di circa 70 anni e un suo consolidamento disciplinare. Alcuni ricercatori hanno proposto classificazioni di metodi e tecniche che hanno a che fare con il futuro, ne sono stati contati oltre una 30ina. In generale, notiamo che è utile un approccio di tipo sistemico, che ci aiuti a gestire la complessità, tenendo in considerazione e gestendo molte variabili, diversi livelli e più dimensioni relativi a un determinato obiettivo. Per questo abbiamo necessità di essere interdiscplinari, facendoci contaminare da approcci di campi differenti.

EF: Da un punto di vista personale, quali sfide nello specifico hai affrontato e in che modo gli Studi di futuro ti hanno consentito di superarle in senso positivo?

AR: Nella mia esperienza sono molti i “problemi”, diciamo così, su cui insieme ai colleghi abbiamo concentrato la nostra attenzione: dalla necessità di definire visioni strategiche che uscissero dalla semplice operazione creativa o di marketing, all’urgenza di muoversi nell’incertezza o nella comprensione dei rischi di determinate azioni; e ancora si lavora sull’attivazione di percorsi di innovazione trasformativa; oppure portare lo sguardo molto in là nel tempo, individuando le diverse possibilità in grado di favorire il superamento di impasse decisionali nel presente; e infine si è trattato di fare squadra o comunità nella direzione di visioni condivise di futuri auspicati.

In tutti i casi, il cosiddetto strategic foresight implica il ricorso a una finestra temporale di lungo periodo, capace di allargare lo sguardo su opzioni diverse, anche improbabili, ma comunque possibili. In questo senso diciamo che il futuro è aperto a (potenzialmente) infinite diverse storie. Un ultimo aspetto fondamentale è la ricerca non solo delle costanti (per esempio, le indagini di forecasting sulle tendenze in atto, basate su estrapolazioni statistiche, serie storiche ecc), ma anche, e soprattutto, delle discontinuità, ossia quegli eventi e fenomeni a bassa probabilità ma ad altissimo impatto, come quella che stiamo vivendo in questi mesi con il coronavirus. Peraltro, la “wild card” dell’epidemia è una delle eventualità che utilizziamo nei nostri percorsi strategici, insieme a molti altri “cigni neri”. Come funziona? Si ragiona sul proprio modello di business, sul proprio mercato di riferimento e i clienti, il settore e la concorrenza ecc. Poi, l’epidemia. Oppure il vulcano dal nome irripetibile [Eyjafjallajökull] che erutta in Islanda diffondendo le ceneri in tutta Europa. Insomma, qualcosa accade “all’improvviso” e cambia completamente i piani di breve periodo. Che fare? Serve avere una pianificazione strategica di lungo periodo che ci aiuti a ragionare in senso sistemico, ampio, che ci renda abili a comprendere segnali deboli o trasversali, che ci permetta di attivare risorse resilienti, così da montare strategie, road maps, piani, progetti robusti, “a prova di futuro” diciamo noi. Ricordo quando circa 25 anni fa si osservava questo “fenomeno nuovo” che era Internet: un “boom”, da un momento in poi niente è stato più come prima, si parlava di “new economy”. L’effetto di queste discontinuità è proprio il “niente sarà più come prima”.

Un altro esempio aggiornato al 2020 è questo: mettiamo in piedi il Cottino Social Impact Campus e tutti ci dicono “Ma siete pazzi! In Italia queste cose non funzionano!”. Ed è vero se guardiamo il breve periodo e andiamo alla ricerca di risultati economici immediati. Se invece consideriamo una cornice di lungo periodo, possiamo intercettare un senso più alto e pure più profondo, che ci aiuta ad accettare, per così dire, che i primi due o tre anni si arrancherà e molte cose non funzioneranno. Attribuiamo un significato diverso a quello che stiamo facendo oggi, perché lo inseriamo in un progetto di ampio respiro. In una narrazione si passa da un mondo ordinario a uno straordinario, pieno di problemi, intoppi, sconfitte, per poi approdare a un nuovo mondo, trasformato. Riguardo il Campus auspichiamo di averlo trasformato in meglio!

EF: Quindi dare significato al presente guardando il futuro?

AR: Perfetto, l’hai detta bene! E anche alle decisioni del presente. Ad alcuni [gli Studi di futuro] sono serviti ad aumentare la capacità pianificatrice, mentre a monte lavori in ottica identitaria e di missione. Nel caso della pianificazione significa decidere, quando tu devi fare un investimento di lungo periodo, se per esempio la scelta che stai compiendo è basata su dati e considerazioni relativi a problemi e soluzioni del presente oppure se ti stai davvero interrogando su quale sarà lo scenario, su come sarà il mondo al tempo in cui quell’investimento sarà a termine.

Gli esempi si sprecano, alcuni sono sotto i nostri occhi: la costruzione di un impianto o un’infrastruttura che richiedono magari almeno 10 anni per metterli in piedi, perciò dovremmo chiederci se stiamo progettando la soluzione migliore per oggi o per il futuro.

Nelle grandi città europee e italiane sono numerosi i parcheggi multipiano semivuoti: erano perfette soluzioni per le metropoli congestionate dal traffico di inizio millennio, mentre oggi la mobilità è cambiata, così come le abitudini dei cittadini, c’è un vento culturale più forte legato alla sostenibilità, alla cura dell’ambiente, si presentano nuove soluzioni anche tecnologiche, basate sullo sharing.

Potremmo fare discorso analogo per gli inceneritori, la cui costruzione è stata decisa in epoca in cui i comportamenti dei cittadini e le tecnologie disponibili non lasciavano pensare ad altra soluzione per la gestione dei rifiuti. Poi, tempo di costruirli (tra i 5 e i 10 anni), e ci siamo trovati in un mondo cambiato, nel quale abbiamo scoperto che, per una serie di fattori, la raccolta differenziata funziona oltre le più rosee aspettative. Nei percorsi di team building con i colleghi lavoriamo per aiutare le organizzazioni a fare squadra attraverso un viaggio nel futuro, usando varie metodologie che attivano capacità di immaginazione – dall’arte alla narrazione, dal teatro al disegno. Funziona molto bene per fare aderire una comunità, organizzativa e non, a un sistema di valori e di visioni condivisi, per mobilitare le energie verso quella direzione.

EF: E rispetto a queste attività, riusciresti a indicarmi delle tipologie di ruoli e professioni che maggiormente riescono a beneficiare di questo approccio?

AR: Chiunque prenda decisioni. Dentro le organizzazioni (che siano for o non profit) chi sta al vertice e prende decisioni più consistenti è il target ideale, ma non solo. Interlocutori ideali – e me ne sto accorgendo facendo consulenza – sono anche team di Innovation, R&D [Research and Development], del marketing strategico o ancora dell’IT. E poi ci sono i manager, che tendenzialmente hanno il compito di gestire il presente. Queste figure hanno la necessità di rendere il loro sguardo più “completo”, abbracciando una visione di lungo periodo per attivare un pensiero prospettico che li aiuti a tirarsi fuori da situazioni di sola contingenza e prendere decisioni che potremmo definire anche lungimiranti. Significa aiutarli ad aprire la mente. Peraltro grandi aziende e istituzioni internazionali ed europee stanno reclutando autori di fantascienza. Questo perché, in chiave strategica, hanno la necessità che i loro Board attivino capacità di – o vengano stimolati a – pensare in maniera più divergente e aperta, considerando possibilità alternative ai confini oppure oltre i propri orizzonti tradizionali.

Ciò accade perché il contesto attuale è in così rapida evoluzione in tutti i campi da richiedere sforzi di immaginazione e interpretazione ben più complessi. E ci serve guardare lontano nel tempo: “Quando l’auto va veloce bisogna che i fari illuminino più lontano”, diceva lo studioso di futuri francese Gaston Berger.

E oggi aumenta la popolazione, viaggia spedito il progresso tecnologico basato su digitale e intelligenza artificiale, si moltiplicano le connessioni, incrementano le moli di dati: tutte variabili diverse o più numerose rispetto anche soltanto a vent’anni fa. Aumentando la velocità dei cambiamenti le lenti e i modelli che usavamo vengono resi obsoleti, inutili o comunque parziali (se vogliamo dirla in maniera più diplomatica – io dico ‘inutili’). Bisogna quindi aiutare a trovare nuove lenti e modelli attraverso cui guardare il sistema. Così i manager non possono più pensare solo alla gestione del budget dell’anno in corso. In effetti ci aspettiamo che un manager pubblico, ma il discorso vale anche per gli analoghi del forprofit, con ruolo di responsabilità prenda decisioni considerando gli impatti trasformativi, nel tempo (anni), che queste produrranno, e non sulla scorta di risultati di breve periodo, come ogni tanto ci tocca osservare quando il manager di turno agisce perché obbligato dalla propria gerarchia, con intenti speculativi, o per ottenere visibilità, un incentivo economico, un vantaggio individuale. 

Il 35% dei lavoratori nei paesi dell’OCSE ritiene di non avere le competenze necessarie per svolgere il proprio lavoro.

Mentre il 40% dei datori di lavoro nei paesi del G20 ha difficoltà a trovare le persone giuste per creare nuovi posti di lavoro. Le opportunità di formazione in campo Impact e Social Innovation possono aiutare a garantire alle persone le competenze di cui hanno bisogno?

Come è possibile accrescere le competenze e creare forme innovative di apprendimento che aiutino ad affrontare in modo positivo il mondo del lavoro in continua evoluzione? La risposta è il perpetual learning?

Scopriamolo nel report OCSE “The future of work”, pubblicato qualche settimana fa.

“Il mondo sta cambiando. La “quarta rivoluzione” industriale è qui – e sta avendo un impatto su tutto, incluso il futuro del lavoro. Si prevede una significativa evoluzione del mercato del lavoro nei prossimi 10 anni e non conosciamo ancora pienamente quali saranno tutti i lavori del futuro” Inizia con queste parole l’ottimo approfondimento di Tae Yoo (Senior Vice-President, Corporate Affairs and Corporate Social Responsibility, Cisco) per il sito del World Economic Forum intitolato “Why ‘perpetual learning’ will help you thrive in the changing world of work”.

Il Cottino Social Impact Campus focalizzerà la sua offerta sul tema chiave del perpetual learning for social change.

2022 Skills Outlook - World Economic Forum

Leggi tutto l’articolo qui. Buona lettura.

Cottino Social Impact Campus nella sua azione educational cercherà di generare “transformative change”. Ma in concreto cosa significa?
A differenza del cambiamento “transformazionale”, nel quale i modelli di riferimento rimangono preservati, il cambiamento “transformativo” estende la conoscenza al fine di generare nuovi modelli di riferimento. Supporteremo quindi uno sforzo di “collective reframing”, seguendo lo stesso approccio utilizzato dalle Nazioni Unite per identificare gli ormai ben noti Sustanable Development Goal (SDGs) dell’Agenda 2030.

Con l’approccio “transformativo” lavoreremo sui sistemi complessi che possono concorrere ad articolare lo sviluppo e il consolidamento culturale di nuove interpretazioni della realtà: sociale, economica, ambientale.

Nel video sotto una bella presentazione curata delle Nazioni Unite dei 17 #SDGs. Buona visione.