Lo scorso 13 luglio il World Economic Forum ha diffuso il report annuale Global Gender Gap Report 2022 giunto alla sua sedicesima edizione e dedicato ai livelli di attuazione delle misure riduttive del gender gap in tutti settori e livelli lavorativi. Un’analisi dall’area corporate al terzo settore, passando dalla rappresentazione politica fino al lavoro di cura e assistenza.

I dati emersi, a livello globale, riportano un trend complessivo di lieve miglioramento rispetto al 2021, ma di certo non ottimista: in base agli andamenti attuali, per raggiungere la piena parità di genere, impiegheremo ben 132 anni.

Rispetto al 2020, che prevedeva 136 anni per il raggiungimento della Gender Parity c’è quindi un lieve miglioramento, ma non è ancora (ovviamente) abbastanza.

Puntando la lente di ingrandimento sull’Italia, la situazione è stabile, ma lontana da un risultato che possiamo considerare di successo. Il nostro Paese risulta infatti al 63esimo posto al mondo su 146 posizioni complessive e 25esimo in Europa su 35 nazioni totali.

Ma se è vero che il report sottolinea una situazione complicata, è altrettanto importante ricordare che sono stati diversi, negli anni, gli interventi legislativi che hanno cercato di intervenire sul gender gap in ambito lavorativo nel nostro Paese. 

La parità di genere e la riduzione delle disuguaglianze sul posto di lavoro infatti passa anche dai ruoli dirigenziali che le donne possono ricoprire. Dopo la proroga della Legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei CdA e la proposta sulla trasparenza salariale presentata dalla Commissione Europea, il nostro Paese ha anche visto l’approvazione della legge 162 del 2021 (legge Gribaudo) che punta a favorire la parità retributiva e le pari opportunità sul luogo di lavoro.

Dal 1° gennaio 2022 inoltre è prevista una certificazione sulla parità di genere con l’obiettivo di riconoscere le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. E la legge Gribaudo riconosce anche sgravi fiscali alle aziende che possono dimostrare interventi e risultati in tema di parità di genere. Senza contare che, in ottica di trasparenza, è anche stato istituito un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese costituito da rappresentanti del Dipartimento per le pari opportunità, dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, delle consigliere e dei consiglieri di parità, di rappresentanti sindacali ed esperti.

In Italia, nel 2022, le donne detengono il 32% delle posizioni aziendali di comando

In Italia, nel 2022, le donne detengono il 32% delle posizioni aziendali di comando, 2 punti percentuali in più rispetto al 2021. Le donne CEO sono salite al 20% così come quelle con ruoli nel senior management al 30% nel 2022. Tuttavia, secondo il rapporto annuale “Women in Business“ di Grant Thornton, il nostro Paese rimane ancora nelle retrovie tra le 30 economie mondiali analizzate.

La stessa ricerca nel 2021 aveva rilevato, infatti, che le posizioni di CEO occupate dalle donne erano scese al 18% rispetto al 23% registrato nel 2020, andando sotto la media dell’Eurozona (21%) e delle rilevazioni fatte a livello mondo (26%). Invece, a livello globale, la ricerca ha mostrato che rispetto al 2021 aumentano le donne CFO (oggi al 37%) e COO (al 24%), mentre scendono di 2 punti le donne CEO (24% rispetto al 26% dello scorso anno).

Come intervenire e migliorare la situazione quindi?

Tenendo alta l’attenzione su questo tema e lavorando per aumentare la consapevolezza che un mondo che prevede la parità di genere in ambito lavorativo, e non solo, è un mondo migliore. Per tutti. 

Scarica il Report

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Momenti storici che si caratterizzano per alta discontinuità rispetto ai tempi precedenti richiedono disposizioni mentali differenti.

La trasposizione sul piano digitale di linguaggi analogici, la commistione tra AI e intelligenze umane, la sovrapposizione tra dinamiche globali e locali, sono solo alcune delle driving forces che richiedono urgentemente un aggiornamento delle nostre lenti cognitive. 

In questa cornice, l’aumento vertiginoso di complessità e incertezza ha reso i mindset tradizionali “obsoleti” e la loro applicazione un fattore di rischio per il decision-making.   Parlare di obsolescenza non è questione di moda ma epistemologica: i mindset sono strutture di conoscenza plasmate sulla base dall’esperienza passata che impattano i modi di percepire, pensare e attribuire di cui facciamo uso nel presente. Sono forme di memoria vivente che, nelle fasi storiche ricche di trasformazioni radicali, producono bias ossia credenze che portano a giudizi-valutazioni erronei in modo automatico e inconsapevole. Ergo, la necessità di un cambiamento di mentalità. 

Il Foresight Mindset è un insieme di atteggiamenti mentali, lenti cognitive e schemi di credenze per la gestione delle transizioni.

È un mindset che nasce appositamente per supportare processi di decision-making trasformativi nei momenti in cui la discontinuità impedisce di applicare al domani ciò che vi era ieri (“fenomeno del presentismo”). 

Messo a confronto ad esempio con il celebre growth mindset” (Carol Dweck, 2007), il Foresight Mindset ne ingloba le qualità e al contempo se ne distingue per tre specifiche dimensioni


  1. Uso strategico della temporalità: il futuro viene concepito come lente cognitiva e si utilizzano ottiche temporali di medio-lungo termine come dispositivi strumentali per cogliere le possibilità inedite del presente
  2. Finalità trasformative: nel Foresight Mindset si promuove l’assunzione di prospettive osservative divergenti con l’esplicito obiettivo di innescare processi di cambiamento 
  3. Gestione strumentale della complessità: mentre nei mindset tradizionali l’informazione ambigua e incompleta è considerata limite, nel Foresight Mindset la complessità e l’incertezza sono risorse per il processo decisionale 

“Non scrivere mai di un posto finché non sei lontano da esso, perché ciò ti dà una prospettiva”, scriveva Ernest Hemingway.

Parafrasando la citazione nel terreno del Future&Foresight, affermiamo che non è possibile acquisire una lettura consapevole delle possibilità del presente se non lo osserviamo con gli occhi del futuro. 

La costruzione di politiche d’impatto e strategie di innovazione necessita anzitutto di una preliminare ristrutturazione cognitiva che ci insegni a vedere “l’inevitabile” come “uno dei possibili”.  

Nella Foresight Academy viene dedicato tempo e spazio all’attivazione della mentalità orientata al futuro. La formazione di un Foresight mindset assolve almeno una duplice funzione. La prima, di metterci in guardia dai bias che quotidianamente disorientano le nostre strategie di sviluppo attraverso la promozione di consapevolezza rispetto agli strumenti cognitivi della nostra “cassetta degli attrezzi”. La seconda, di dotarci delle competenze necessarie alla trasformazione dei limiti posti dalle sfide contemporanee (incertezza e complessità) in risorse a servizio dell’innovazione e del cambiamento. 

Di Roby Parissi, Social Innovation Manager di ForwardTo – Studi e competenze per scenari futuri.

Vuoi saperne di più sulla Foresight Mindset?

Consulta la pagina Foresight Academy dedicata sul nostro sito.


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Didattica e apprendimento devono essere trasformativi.

Assumere acriticamente concetti e nozioni per poi riproporli – e applicarli – in maniera invariata è poco utile.

O meglio, apprendere nozioni è utile se queste vengono messe a giudizio di un’indagine critica e razionale.

Per essere trasformativa la didattica deve produrre quello che Jack Mezirow (sociologo statunitense che insegnò alla Columbia University) chiama “change in a frame of reference (Mezirow 1997: 5).
Queste “cornici di riferimento” sono le associazioni mentali, i concetti, i valori e anche le sensazioni che definiscono la nostra età adulta e il mondo in cui ognuno di noi si muove (non tanto perché questo viene modellato da noi, ma perché viene interpretato proprio a partire da ciò che siamo, conosciamo e desideriamo).

Mezirow inoltre ha argomentato che queste cornici si compongono sostanzialmente di due ingredienti distinti: (a) abitudini e (b) punti di vista.
Se le prime sono profondamente radicate in noi (e tendenzialmente derivate dalle persone che ci hanno dato le prime cure), i secondi sono più soggetti al cambiamento.

Il concetto di “transformative learning” ha come obiettivo proprio quello di cambiare e trasformare queste cornici tramite cui ci approcciamo e comprendiamo il mondo circostante.

Uno dei concetti trasformativi per definizione e che attualmente sta prendendo sempre più piede è quello di impatto sociale.

Uno dei luoghi per eccellenza in cui tale concetto viene messo in pratica e veicolato tramite una formazione trasformativa è qui al Cottino Social Impact Campus. L’obiettivo è quello di costruire una nuova cultura capace di rendere le persone world-makers, costruttori e costruttrici di mondi differenti tramite la trasformazione degli attuali modelli di riferimento. E tale obiettivo si concretizza tramite l’offerta di nuovi strumenti, linguaggi e pratiche in cui individui e organizzazioni si aggregano creando comunità di apprendimento capaci di sostenere le sfide globali.

La declinazione della transformative education incorporata dal Cottino Social Impact Campus si declina lungo più assi:

  1. una visione sistemica,
  2. un intento sociale,
  3. un approccio progettuale.

Avere una visione sistemica significa concepire che tutti i sistemi sono composti a loro volta da sotto sistemi interlacciati tra loro.
Una visione sistemica rigetta l’assunto tradizionale tipico di un certo qual riduzionismo secondo cui il tutto è nient’altro che la somma delle parti.

Il Cottino Social Impact Campus promuove una visione che affronta e sfida il contesto d’insieme

concependolo come composto da altrettanti elementi tra loro collegati.

Ed è così che le dimensioni ambientali, sociali, economiche, di governance, assumono senso laddove integrate tra loro in una visione sistemica.

L’intento sociale si esplicita nel pensare alla centralità dell’essere umano come fine delle azioni e mai come mezzo, privilegiando così i concetti di società e comunità, inclusione, equità e partecipazione prima di quello di individuo.

Infine, l’approccio progettuale: si tratta di sviluppare corsi di azioni che hanno come obiettivo quello di trasformare la situazione attuale in una (collettivamente e socialmente) preferibile. 

Questi tre assi trovano un luogo di applicazione chiaro e definito nel nostro programma Impactware, il percorso per diventare esperti dell’impatto sociale.
Tramite molteplici modalità didattiche, in un susseguirsi di lezioni frontali, discussioni tra pari, testimonianze d’impatto, workshop e canvas originali, i partecipanti possono definire un piano d’azione con un obiettivo chiaro in linea con una visione d’impatto capace di sfidare lo status quo.

Vuoi saperne di più sul nostro percorso?

Consulta la pagina Impactware dedicata sul nostro sito.


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Cosa fareste se, fra dieci anni, vi ritrovaste un robot per casa, capace di provare tutta la gamma delle emozioni umane?
Potrebbe essere un normale device, come lo smartphone, capace di sostituirvi a lavoro o di diventare il vostro coach dedicato.

Che impatto avrebbe sulla vostra vita e come cambierebbero le relazioni affettive e professionali con gli altri?

Se non ci avete mai pensato, è ora di cominciare a provare. Immaginare, disegnare, valutare e perseguire la realizzazione di specifici scenari futuri è la palestra in cui sviluppare l’attitudine a esplorare le possibilità del domani. La scansione dei possibili può essere attivata non solo per le grandi tematiche che riguardano l’umanità (per es. il cambiamento climatico), la vostra azienda (es. nuovi mercati, opportunità all’orizzonte, criticità e rischi) o per le attività riguardanti il vostro futuro prossimo (dove andrete in vacanza), possiamo infatti imparare a influenzare le dinamiche e gli scenari in cui ci muoviamo per realizzare la versione preferita di noi stessi

Come?

Iniziamo a sfatare qualche mito: il futuro non si può predire. Dimentichiamo cartomanti, sensitivi e consulenti che sembrano custodire la verità. Il futuro non esiste ancora e quindi non può essere predetto, per questo diffidate di chi vi propone una versione unica di futuro. Il futuro è sempre plurale.
Davanti a noi c’è un cono di scenari futuri più o meno probabili, possibili e preferibili, che vanno identificati, analizzati e raccontati. Si tratta di uno dei fondamenti del Futures&Foresight, una disciplina nata nel secolo scorso per scopi militari e strategici, che negli anni ’60 ha iniziato a essere utilizzata in contesti organizzativi per anticipare scenari futuri. Fino a diventare, negli ultimi decenni, uno strumento necessario per i decision-makers per scatenare e attivare un percorso trasformativo.

Per rendere però questo processo solido in un contesto in cui l’accelerazione e l’incertezza sono condizioni diffuse, non va trascurata la componente personale del decision-maker.
Parliamo di Personal Futures, l’applicazione di metodologie Futures&Foresight non solo all’organizzazione, ma anche – con le opportune rimodulazioni – al singolo individuo, di cui parleremo in moduli dedicati a nella Foresight Academy realizzata in partnership tra il Cottino Social Impact Campus e Forwardto e in partenza ad ottobre.

A partire dagli studi dell’americano Verne Wheelwright e alla pubblicazione dei risultati della sua sperimentazione nel 2010, si è iniziato a comprendere quanto è importante guardare non solo all’impatto che le scelte dei decision-makers hanno sulle loro organizzazioni, ma anche (e oserei dire soprattutto) sul loro personale percorso di crescita professionale.  
La capacità di immaginare, disegnare, valutare e scegliere uno scenario futuro aspirazionale e strategico, è profondamente influenzata da alcune variabili personali del decision-maker, a cominciare dal suo sistema valoriale e da quanto esso sia sovrapponibile con quello dell’organizzazione di cui fa parte. 

Lavorare sulla consapevolezza di sé e sulla personale propensione (o disabitudine) a esplorare scenari futuri è un passaggio necessario per realizzare un percorso “future-proof”.
Come a dire che i sistemi percettivi, valoriali, relazionali e comportamentali di ognuno di noi, condizionano i processi di analisi strategica sul futuro del proprio contesto, settore, territorio, mercato. Chi prende decisioni in prospettiva per un’azienda, per esempio, identifica strategie e roadmap per realizzare un futuro auspicato nel lungo periodo (la visione strategica dell’organizzazione). Sarà un processo svolto con tanta più disinvoltura, rapidità, completezza ed efficacia, quanto più chi lo realizza ha consapevolezza dei Personal Futures, del proprio mindset di orientamento al futuro e delle proprie personali aspettative sul domani. 

Negli ultimi anni abbiamo studiato e testato le metodologie di Personal Futures sul campo, in contesti organizzativi a elevata complessità che stavano affrontando (o si preparavano ad affrontare) una fase di cambiamento profondo non solo di processo o di struttura, ma soprattutto di mentalità. Abbiamo aiutato decision-makers con percorsi integrati di Personal Futures (attivati per la prima volta in Italia) che hanno prodotto un’accelerazione nelle dinamiche trasformative, potenziando la loro capacità di:

E voi? Su quale versione di voi stessi volete iniziare a lavorare?
Per capirlo consultate la nostra pagina dedicata alla Foresight Academy in partenza ad ottobre!

Di Pierfrancesco Matarazzo, skill business coach e Personal Futures Developer di ForwardTo – Studi e competenze per scenari futuri.


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Nel nostro tempo, caratterizzato da complessità, accelerazione e incertezza, abbiamo un sempre più urgente bisogno di competenze che ci permettano interpretare e anticipare il cambiamento.

L’obiettivo di Strategic Foresight e Future Studies è proprio questo: fornirci gli strumenti per fare un salto nel futuro, vedendo le possibilità che porta con sé, per poi tornare ad agire nel presente con maggiore consapevolezza ed efficacia.

La complessità non ci consente di ragionare e agire in modo lineare come ci è stato insegnato fin dai primi giorni di scuola, richiede un approccio sistemico che tenga conto di molti fattori, e capace di cogliere rischi e opportunità. Pertanto è necessario imparare e abituarsi a osservare i segnali e i cambiamenti (di tipo tecnologico, sociale, ambientale, politico ed economico), a immaginare scenari possibili alternativi di lungo periodo e a costruire strategie “a prova di futuri”, per dare senso alle decisioni e alle azioni che compiamo nel presente e nel futuro prossimo.

Questo approccio implica mentalità, conoscenze e competenze che costituiscono una base necessaria oggi per interpretare i segnali trasformativi, anticipare i cambiamenti, migliorare la capacità strategica, attivare nuove competenze come la resilienza, l’anticipazione, l’immaginazione, l’etica, la leadership orientata al futuro.

Naturalmente non possiamo prevedere il futuro, perché non abbiamo dati ed evidenze.

Salvo qualche eccezione, come per alcune forze e fenomeni in atto, misurabili, su cui possiamo applicare proiezioni statistiche (es. clima, demografia, alcuni trend tecnologici).

Tuttavia il futuro può (deve) essere immaginato, pensando ai possibili scenari che si profilano e che hanno impatto significativo su nostri contesti, mercati, territori, organizzazioni.

Gli scenari sono narrazioni di “che cosa è successo” nei futuri che abbiamo immaginato.
Non è un errore grammaticale: il punto è pensarli “con la testa nel futuro”, come qualcosa che accade o è accaduto. Così costruiti tali racconti ci preparano ad affrontare le diverse opzioni in maniera proattiva e resiliente.
Un approccio utile ed efficace, sia per gli individui con i loro progetti personali e imprenditoriali, sia per le aziende che non solo vogliono sopravvivere reagendo in un mercato sempre più volatile, ma quel mercato vogliono determinarlo.

Guarda la Impact Cherry di Alberto Robiati, direttore di ForwardTo – Studi e competenze per scenari futuri e direttore della Foresight Academy in partenza dal 16 ottobre.

Ma come farlo?

Prima di tutto occorre imparare a pensare a finestre temporali di lungo periodo (es. a 10 o 15 anni). Questa disciplina ci permette di guardare al presente con gli occhi del futuro. Il futuro è il mezzo, non il fine: serve a prendere decisioni strategiche nel presente e nel nostro futuro prossimo. E quindi a innescare, oggi, azioni e comportamenti.

Il futuro non è uno solo, dunque. I futuri, e gli scenari ad essi legati, sono molteplici.

Distinguiamo i futuri probabili, quelli che possiamo elaborare analizzando i dati a nostra disposizione (es. sui megatrends). Poi i futuri possibili, desumibili in parte dall’analisi di segnali deboli che cogliamo nel presente e che potrebbero rafforzarsi, e in parte esplorando le possibilità grazie alla capacità di pensarle, attivando l’immaginazione e la creatività. Questi futuri possibili contemplano anche i cambiamenti più radicali, compresi i cigni neri, eventi imprevisti ma ad alto impatto che modificano il corso del futuro (“Le cose non saranno più come prima”).

Infine lavoriamo sui futuri preferiti, la direzione verso cui vogliamo andare. Si tratta di quegli orizzonti che vogliamo attirare a noi con le nostre decisioni e le nostre azioni, il porto in cui vogliamo approdare. Si tratta di un futuro che attira a sé il presente, mobilitando energie, risorse, azioni in grado di realizzare (o adattarsi a) le pre-condizioni per quella visione auspicata.

Seneca diceva che nessun vento è favorevole per chi non sa a quale porto vuol approdare. Ma tutti i venti possono essere favorevoli a chi sa leggerli e anticiparli.

Ed è questo che si impara alla Foresight Academy, generare futuri desiderati (che si tratti di mercati, business, società, territori ecc) tracciando rotte nella complessità e nell’incertezza, sviluppando capacità anticipatorie in grado di muovere le nostre vite e il nostro business in maniera fluida, adattabile (anti-fragile, direbbe Nassim Taleb), consapevole delle diverse possibilità alternative.

Stefano Colmo, networking manager di ForwardTo – Studi e competenze per scenari futuri

Vuoi rinforzare la mentalità orientata al futuro, nutrire l’intelligenza strategica e acquisire metodi di Foresight per muoverti consapevolmente nella complessità del nostro tempo?

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Leggi la nostra intervista a Valeria Cavotta

Edoardo Fregonese, il nostro Educational Expert, ha intervistato Valeria Cavotta ricercatrice presso la Libera Università di Bolzano dove insegna imprenditorialità sociale e B2B marketing.

Edoardo Fregonese: Cos’è il system thinking? Qual è la sua storia e il suo posizionamento disciplinare?

Valeria Cavotta: Non c’è dubbio che il termine “sistema” sia diventato negli anni molto popolare in moltissime discipline, dalla cibernetica alle scienze sociali. In generale, si parla di sistema per identificare una serie di relazioni che rendono complesso il nostro vivere sociale e professionale, e per pensiero sistemico si intende il potenziamento della capacità di guardare ai problemi in modo olistico. Siamo ancora lontani dall’avere una coerenza inter e intra disciplinare di termini e approcci, ma in generale, il pensiero sistemico mira a rafforzare la nostra capacità di inquadrare i problemi sociali ed organizzativi, all’interno di un apparato più grande che pone limiti, certo, ma anche opportunità di azione.

EF: Quali sono le potenzialità del pensiero sistemico?

VC: Albert Einstein diceva che i problemi attuali non possono essere risolti con la stessa modalità di pensiero che esisteva nel momento in cui quei problemi sono iniziati.
Il pensiero sistemico fornisce una modalità diversa di pensare ai problemi esistenti, superando le lenti abituali, fatte di modelli mentali, assunzioni, credenze, che ci fanno vedere i problemi sempre nello stesso modo. Si tratta di un processo di scoperta che richiede tempo per dismettere quelle lenti e cominciare a guardare ai problemi in senso olistico. Questo può sembrare contro produttivo in una società che si muove molto velocemente e ci chiede soluzioni rapidissime ma che spesso si rivelano inefficaci. Accettando di prendersi il tempo per comprendere la complessità dei sistemi, il pensiero sistemico dovrebbe ridurre la tendenza di formulare delle soluzioni sbrigative che non solo non mitigano, ma potrebbero anche esacerbare il problema.

EF: E quale legame c’è, o può esserci, tra imprenditorialità sociale e pensiero sistemico?

VC: L’imprenditorialità sociale mira a mitigare o a risolvere problemi sociali, che per definizione, coinvolgono molteplici attori, ognuno portatore di visioni diverse, interessi, criticità, limiti, e potenzialità. Per questo motivo, i problemi sociali vengono considerati estremamente complessi, quasi cronici.
Un approccio sistemico ai problemi sociali, dal nostro punto di vista, non può che riconoscere – anziché sopprimere – questa intrinseca varietà di posizioni e di interpretazioni. Lungi dal mettere in atto una serie di interventi di causa ed effetto basati su una presunzione di maggiori conoscenze, il pensiero sistemico dovrebbe sollecitare gli imprenditori sociali a capire le specificità del contesto e ad immaginare interventi coerenti con le proprie capacità di apprendimento e con le capacità delle loro comunità di assimilare tali interventi.
In altri termini, se da un lato il pensiero sistemico mira a far comprendere la complessità dei sistemi sociali, dall’altro lato, immaginare impatti in larga scala potrebbe non essere una risposta efficace. Gli imprenditori sociali infatti possono fare molto, ma l’impatto sociale su larga scala non può essere atteso da un singolo individuo od organizzazione per via della natura dei problemi sociali a cui facevo riferimento prima. Quindi, attraverso una visione di sistema, gli imprenditori sociali possono esplorare interventi nuovi nella maggiore consapevolezza e conoscenza della complessità del sistema, e in questo modo, possono convogliare all’interno della propria organizzazione e agli stakeholders esterni un riconoscimento più giusto e realistico del valore dei propri interventi.

Leggi la nostra intervista a Alberto Robiati

Edoardo Fregonese, il nostro Educational Expert, ha intervistato Alberto Robiati consulente e formatore per lo sviluppo personale e professionale, esperto di creatività, innovazione e benessere organizzativo. Specializzato in Futures Thinking Strategic Foresight, metodi di visioning strategico ed esplorazione di scenari futuri.

Edoardo Fregonese: Dove si posizionano disciplinarmente i Futures Studies?

Alberto Robiati: forse è più definibile come una sorta di inter-disciplina, poiché sta al confine tra una serie di ambiti e a metà strada tra mondo accademico e applicazione sul campo, soprattutto il settore strategico. Possiamo dire che i domini principali sono quelli della sociologia, dell’economia, dell’urbanistica, dell’architettura e del design, ma molti studi e applicazioni rientrano nella cornice della psicologia, dell’antropologia o del mondo dell’arte. Inoltre da sempre anche la matematica e la statistica e oggi l’informatica forniscono basi teoriche indispensabili agli studi di futuro, nei quali tuttavia la componente quantitativa è meno decisiva rispetto a quella qualitativa.

EF: Quale “utilità” hanno?

AR: In questi tempi complessi, veloci e incerti, e in ogni periodo storico in cui la società è scossa da eventi e fenomeni dirompenti – la Seconda guerra mondiale, la crisi petrolifera, la Guerra fredda, il terrorismo, le tecnologie digitali, internet e così via –, abbiamo bisogno di nuovi modelli, nuovi strumenti, nuove mentalità che ci aiutino a leggere i mutamenti in atto in una prospettiva temporale di lungo periodo, ampliando gli orizzonti per cogliere aspetti che solitamente non rientrano nel nostro spettro ordinario. Gli studi di futuro sono una base necessaria oggi per interpretare i segnali trasformativi, anticipare i cambiamenti, migliorare la capacità strategica, attivare nuove competenze, come la resilienza, l’anticipazione, l’immaginazione, l’etica, la leadership orientata al futuro.

EF: In generale quindi gli Studi di futuro mirano a descrivere ciò che ci sarà o potrà esserci oppure hanno più carattere progettuale e mirano a costruire uno specifico futuro?

AR: Entrambe le cose. Da una parte vogliamo progettare mondi desiderabili e ci occupiamo quindi di generare le circostanze che li determinano. Cioè definisco un futuro preferito e lavoro per costruirlo: vado a vedere quali potrebbero essere le condizioni che mi permettono di realizzarlo e anche come gestire eventuali perturbazioni del sistema, come prepararmi in anticipo rispetto ai cambiamenti a livello macro (come i megatrends). Dall’altra miriamo a esplorare futuri possibili. Vale a dire che non sappiamo cosa succederà e dunque proviamo a studiare scenari alternativi. In nessun caso si può predire il futuro.

EF: Quindi rispondere alla domanda “What if”, in un certo senso.

AR: Anche, certo. Il “What if” è una delle tecniche che usiamo. Ovviamente bisogna lavorare attraverso metodologie molto rigorose che hanno una solidità scientifica. Per fare un esempio, tra gli strumenti previsionali più noti c’è il Delphi, che ha una storia di circa 70 anni e un suo consolidamento disciplinare. Alcuni ricercatori hanno proposto classificazioni di metodi e tecniche che hanno a che fare con il futuro, ne sono stati contati oltre una 30ina. In generale, notiamo che è utile un approccio di tipo sistemico, che ci aiuti a gestire la complessità, tenendo in considerazione e gestendo molte variabili, diversi livelli e più dimensioni relativi a un determinato obiettivo. Per questo abbiamo necessità di essere interdiscplinari, facendoci contaminare da approcci di campi differenti.

EF: Da un punto di vista personale, quali sfide nello specifico hai affrontato e in che modo gli Studi di futuro ti hanno consentito di superarle in senso positivo?

AR: Nella mia esperienza sono molti i “problemi”, diciamo così, su cui insieme ai colleghi abbiamo concentrato la nostra attenzione: dalla necessità di definire visioni strategiche che uscissero dalla semplice operazione creativa o di marketing, all’urgenza di muoversi nell’incertezza o nella comprensione dei rischi di determinate azioni; e ancora si lavora sull’attivazione di percorsi di innovazione trasformativa; oppure portare lo sguardo molto in là nel tempo, individuando le diverse possibilità in grado di favorire il superamento di impasse decisionali nel presente; e infine si è trattato di fare squadra o comunità nella direzione di visioni condivise di futuri auspicati.

In tutti i casi, il cosiddetto strategic foresight implica il ricorso a una finestra temporale di lungo periodo, capace di allargare lo sguardo su opzioni diverse, anche improbabili, ma comunque possibili. In questo senso diciamo che il futuro è aperto a (potenzialmente) infinite diverse storie. Un ultimo aspetto fondamentale è la ricerca non solo delle costanti (per esempio, le indagini di forecasting sulle tendenze in atto, basate su estrapolazioni statistiche, serie storiche ecc), ma anche, e soprattutto, delle discontinuità, ossia quegli eventi e fenomeni a bassa probabilità ma ad altissimo impatto, come quella che stiamo vivendo in questi mesi con il coronavirus. Peraltro, la “wild card” dell’epidemia è una delle eventualità che utilizziamo nei nostri percorsi strategici, insieme a molti altri “cigni neri”. Come funziona? Si ragiona sul proprio modello di business, sul proprio mercato di riferimento e i clienti, il settore e la concorrenza ecc. Poi, l’epidemia. Oppure il vulcano dal nome irripetibile [Eyjafjallajökull] che erutta in Islanda diffondendo le ceneri in tutta Europa. Insomma, qualcosa accade “all’improvviso” e cambia completamente i piani di breve periodo. Che fare? Serve avere una pianificazione strategica di lungo periodo che ci aiuti a ragionare in senso sistemico, ampio, che ci renda abili a comprendere segnali deboli o trasversali, che ci permetta di attivare risorse resilienti, così da montare strategie, road maps, piani, progetti robusti, “a prova di futuro” diciamo noi. Ricordo quando circa 25 anni fa si osservava questo “fenomeno nuovo” che era Internet: un “boom”, da un momento in poi niente è stato più come prima, si parlava di “new economy”. L’effetto di queste discontinuità è proprio il “niente sarà più come prima”.

Un altro esempio aggiornato al 2020 è questo: mettiamo in piedi il Cottino Social Impact Campus e tutti ci dicono “Ma siete pazzi! In Italia queste cose non funzionano!”. Ed è vero se guardiamo il breve periodo e andiamo alla ricerca di risultati economici immediati. Se invece consideriamo una cornice di lungo periodo, possiamo intercettare un senso più alto e pure più profondo, che ci aiuta ad accettare, per così dire, che i primi due o tre anni si arrancherà e molte cose non funzioneranno. Attribuiamo un significato diverso a quello che stiamo facendo oggi, perché lo inseriamo in un progetto di ampio respiro. In una narrazione si passa da un mondo ordinario a uno straordinario, pieno di problemi, intoppi, sconfitte, per poi approdare a un nuovo mondo, trasformato. Riguardo il Campus auspichiamo di averlo trasformato in meglio!

EF: Quindi dare significato al presente guardando il futuro?

AR: Perfetto, l’hai detta bene! E anche alle decisioni del presente. Ad alcuni [gli Studi di futuro] sono serviti ad aumentare la capacità pianificatrice, mentre a monte lavori in ottica identitaria e di missione. Nel caso della pianificazione significa decidere, quando tu devi fare un investimento di lungo periodo, se per esempio la scelta che stai compiendo è basata su dati e considerazioni relativi a problemi e soluzioni del presente oppure se ti stai davvero interrogando su quale sarà lo scenario, su come sarà il mondo al tempo in cui quell’investimento sarà a termine.

Gli esempi si sprecano, alcuni sono sotto i nostri occhi: la costruzione di un impianto o un’infrastruttura che richiedono magari almeno 10 anni per metterli in piedi, perciò dovremmo chiederci se stiamo progettando la soluzione migliore per oggi o per il futuro.

Nelle grandi città europee e italiane sono numerosi i parcheggi multipiano semivuoti: erano perfette soluzioni per le metropoli congestionate dal traffico di inizio millennio, mentre oggi la mobilità è cambiata, così come le abitudini dei cittadini, c’è un vento culturale più forte legato alla sostenibilità, alla cura dell’ambiente, si presentano nuove soluzioni anche tecnologiche, basate sullo sharing.

Potremmo fare discorso analogo per gli inceneritori, la cui costruzione è stata decisa in epoca in cui i comportamenti dei cittadini e le tecnologie disponibili non lasciavano pensare ad altra soluzione per la gestione dei rifiuti. Poi, tempo di costruirli (tra i 5 e i 10 anni), e ci siamo trovati in un mondo cambiato, nel quale abbiamo scoperto che, per una serie di fattori, la raccolta differenziata funziona oltre le più rosee aspettative. Nei percorsi di team building con i colleghi lavoriamo per aiutare le organizzazioni a fare squadra attraverso un viaggio nel futuro, usando varie metodologie che attivano capacità di immaginazione – dall’arte alla narrazione, dal teatro al disegno. Funziona molto bene per fare aderire una comunità, organizzativa e non, a un sistema di valori e di visioni condivisi, per mobilitare le energie verso quella direzione.

EF: E rispetto a queste attività, riusciresti a indicarmi delle tipologie di ruoli e professioni che maggiormente riescono a beneficiare di questo approccio?

AR: Chiunque prenda decisioni. Dentro le organizzazioni (che siano for o non profit) chi sta al vertice e prende decisioni più consistenti è il target ideale, ma non solo. Interlocutori ideali – e me ne sto accorgendo facendo consulenza – sono anche team di Innovation, R&D [Research and Development], del marketing strategico o ancora dell’IT. E poi ci sono i manager, che tendenzialmente hanno il compito di gestire il presente. Queste figure hanno la necessità di rendere il loro sguardo più “completo”, abbracciando una visione di lungo periodo per attivare un pensiero prospettico che li aiuti a tirarsi fuori da situazioni di sola contingenza e prendere decisioni che potremmo definire anche lungimiranti. Significa aiutarli ad aprire la mente. Peraltro grandi aziende e istituzioni internazionali ed europee stanno reclutando autori di fantascienza. Questo perché, in chiave strategica, hanno la necessità che i loro Board attivino capacità di – o vengano stimolati a – pensare in maniera più divergente e aperta, considerando possibilità alternative ai confini oppure oltre i propri orizzonti tradizionali.

Ciò accade perché il contesto attuale è in così rapida evoluzione in tutti i campi da richiedere sforzi di immaginazione e interpretazione ben più complessi. E ci serve guardare lontano nel tempo: “Quando l’auto va veloce bisogna che i fari illuminino più lontano”, diceva lo studioso di futuri francese Gaston Berger.

E oggi aumenta la popolazione, viaggia spedito il progresso tecnologico basato su digitale e intelligenza artificiale, si moltiplicano le connessioni, incrementano le moli di dati: tutte variabili diverse o più numerose rispetto anche soltanto a vent’anni fa. Aumentando la velocità dei cambiamenti le lenti e i modelli che usavamo vengono resi obsoleti, inutili o comunque parziali (se vogliamo dirla in maniera più diplomatica – io dico ‘inutili’). Bisogna quindi aiutare a trovare nuove lenti e modelli attraverso cui guardare il sistema. Così i manager non possono più pensare solo alla gestione del budget dell’anno in corso. In effetti ci aspettiamo che un manager pubblico, ma il discorso vale anche per gli analoghi del forprofit, con ruolo di responsabilità prenda decisioni considerando gli impatti trasformativi, nel tempo (anni), che queste produrranno, e non sulla scorta di risultati di breve periodo, come ogni tanto ci tocca osservare quando il manager di turno agisce perché obbligato dalla propria gerarchia, con intenti speculativi, o per ottenere visibilità, un incentivo economico, un vantaggio individuale. 

Il 35% dei lavoratori nei paesi dell’OCSE ritiene di non avere le competenze necessarie per svolgere il proprio lavoro.

Mentre il 40% dei datori di lavoro nei paesi del G20 ha difficoltà a trovare le persone giuste per creare nuovi posti di lavoro. Le opportunità di formazione in campo Impact e Social Innovation possono aiutare a garantire alle persone le competenze di cui hanno bisogno?

Come è possibile accrescere le competenze e creare forme innovative di apprendimento che aiutino ad affrontare in modo positivo il mondo del lavoro in continua evoluzione? La risposta è il perpetual learning?

Scopriamolo nel report OCSE “The future of work”, pubblicato qualche settimana fa.

“Il mondo sta cambiando. La “quarta rivoluzione” industriale è qui – e sta avendo un impatto su tutto, incluso il futuro del lavoro. Si prevede una significativa evoluzione del mercato del lavoro nei prossimi 10 anni e non conosciamo ancora pienamente quali saranno tutti i lavori del futuro” Inizia con queste parole l’ottimo approfondimento di Tae Yoo (Senior Vice-President, Corporate Affairs and Corporate Social Responsibility, Cisco) per il sito del World Economic Forum intitolato “Why ‘perpetual learning’ will help you thrive in the changing world of work”.

Il Cottino Social Impact Campus focalizzerà la sua offerta sul tema chiave del perpetual learning for social change.

2022 Skills Outlook - World Economic Forum

Leggi tutto l’articolo qui. Buona lettura.

Cottino Social Impact Campus nella sua azione educational cercherà di generare “transformative change”. Ma in concreto cosa significa?
A differenza del cambiamento “transformazionale”, nel quale i modelli di riferimento rimangono preservati, il cambiamento “transformativo” estende la conoscenza al fine di generare nuovi modelli di riferimento. Supporteremo quindi uno sforzo di “collective reframing”, seguendo lo stesso approccio utilizzato dalle Nazioni Unite per identificare gli ormai ben noti Sustanable Development Goal (SDGs) dell’Agenda 2030.

Con l’approccio “transformativo” lavoreremo sui sistemi complessi che possono concorrere ad articolare lo sviluppo e il consolidamento culturale di nuove interpretazioni della realtà: sociale, economica, ambientale.

Nel video sotto una bella presentazione curata delle Nazioni Unite dei 17 #SDGs. Buona visione.